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AMICI CHE SI AMMAZZANO E MAMME CHE PIANGONO

  • Pascal
  • 23 lug 2015
  • Tempo di lettura: 3 min

Mentre metto per iscritto quello che sto pensando, in questa quiete toscana con gli amici, ho davanti agli occhi, come in una dolce poesia, i miei liceali, che con le loro famiglie, le loro mamme e papà, stanno passando, meritatamente, giorni felici, insieme alle proprie ragazze e i propri amici, la gioia della vacanza...

Ma nel mentre, la tristezza e l’orribile, nell’arsura di questa estate, si sono rifatte l’età, hanno preso possesso di corpi giovani, hanno messo t-shirt e jeans a vita bassa.

Tre ultimi giorni sconcertanti e quanti ancora ne passeranno: Lamberto il diciassettenne di Città di Castello (qui vicino) ammazzato da una pasticca di ecstasy comprata dall’amico, bravo ragazzo tutto libri e parrocchia.

E poi: il giovane suicida che s’è buttato da una finestra della Questura di Milano, dopo aver litigato coi genitori e girato per la città in preda a delirio, omaggio compreso nel prezzo di qualche droga velenosa. E ci sono imbecilli che parlano di legalizzazione della droga. Infine Ismaele di Pesaro (il significato del nome significa “Dio ascolti”), sgozzato fin quasi alla decapitazione da due giovani albanesi compari di spinello, per uno sgarro di cuore, uno sguardo di troppo alla ragazza del capo.

Futili motivi, si legge sulla stampa e si sente dai telegiornali, a motivare fattacci che paiono venire dallo sprofondo, ma è un’ipocrita scappatoia: come se davvero esistessero delitti ben motivati e dunque più accettabili. Non è così e in queste cronache di salti nel vuoto, pasticche assassine e delitti feroci in stile mediorientale, tutto pare drammaticamente confuso, assurdo e senza ragioni. Ma non è questione di aggettivi appropriati e intelligenti giudizi: davanti all’orrore, reso ancora più orribile dall’incoscienza di mostri ragazzini, non c’è discorso che tenga: al massimo qualche povera e inutile domanda. «Che importanza hanno tutte le vostre parole di fronte all’uccisione di un ragazzino di soli diciassette anni?», ha urlato ai giornalisti la mamma del ragazzo sgozzato. Vero, eppure cancellate le parole resta solo il vuoto della pietrificazione del cuore e la disperazione dell’anima. Come quella di Tommaso, il diciottenne che ha venduto l’ecstasy killer all’amico di sballo. Una notte folle in discoteca a Riccione: volevano provare insieme come ci si sente a vivere leggeri e fuori dai limiti: uno sbaglio, uno solo dopo anni di gesti normali, di serate a letto presto, di buona educazione in famiglia e rispetto delle regole. «Vorrei essere morto io al posto suo», dice disperato il pusher a sua insaputa, «sono completamente distrutto, adesso la mia vita è finita».

Pure lui un bravo ragazzo, bravo a scuola e impegnato in parrocchia. Anche la madre di Tommaso da giorni piange, pensa all’altra madre che il figlio non potrà rivederlo mai più. «Vorrei incontrarla», ripete, «poterle parlare, dirle quanto mi dispiace per Lamberto, farle le condoglianze. Ma ho paura del suo rifiuto, non so se è la cosa giusta da fare». Già, la cosa giusta. Forse l’ha detta il sindaco di Città di Castello, «In questa tragedia non ci sono colpevoli o innocenti, semmai siamo tutti responsabili, ha fallito il sistema educativo, quello che è successo ci riguarda e lo viviamo in modo ignobile se continuiamo a dare le colpe gli uni agli altri». Perfetto, ma ci spieghi signor sindaco: quale potrebbe essere la colpa della mamma di Lamberto?


Il buon senso non aiuta, troppo generica e anonima questa accusa al mondo intero. Soprattutto inutile a sciogliere l’angoscia di quelle madri, piegate dal destino di figli intrappolati per l’eternità nei ruoli forse simmetrici di vittime e carnefici. «Donna non piangere!»: si legge nella Scrittura. Ma chi se la sente di ripetere l'invito del Cristo alla vedova di Naim, sperduto villaggio oggi musulmano della Palestina, diventato simbolo della compassione di Dio? Non sufficiente, però, a fermare le grandi stragi della follia politica e religiosa che ancora insanguinano il mondo o i “piccoli” omicidi che la quotidianità ripete con spaventosa serialità. Si muore e si uccide per eccesso di sogni o per overdose di realtà, ma d’una realtà privata del suo senso e del suo nome, cioè dell’Infinito. Certo, bisogna avere il coraggio dei nomi e delle parole. Ma senza l’esperienza di «uno sguardo e un cuore che penetra fino nel midollo delle ossa e ci ama fin nel nostro destino» come direbbe un grande maestro, nessuna donna, madre o vedova potrà mai sperare di incontrare qualcuno capace di asciugare le lacrime.


 
 
 

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