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NON E' IL TEMPO CHE PASSA...



Cari Amici e Nemici,

qualche riflessione personale ad alta voce. In queste ore, quando si fa più pungente e inevitabile il senso del tempo che passa, mi pare diventi impossibile non pensare maggiormente... Quando sono quasi costretto a ricordare quante volte mi è toccato staccare il calendario dalle pareti di casa e quante volte ho dovuto fare attenzione alle diverse cifre dell’anno nelle date delle mie lettere, è difficile pensare che oltre il fluire inarrestabile e vano non ci sia qualcuno che resti e dia senso a tutto, e sia la conclusione di ogni nostro agire. Tutto quello che si evolve e trascorre è assurdo, se non si evolve e non trascorre verso una meta. Dico che il tempo passa, ma a ben fi-flettere è una espressione pietosamente bugiarda: sono io che passo.

Non è il tempo che passa, sono le cose con le quali ho a che fare che a poco a poco mi lasciano; sono le infatuazioni, alle quali ho creduto, che l’una dopo l’altra passano; sono le persone conosciute e amate, che, sotto i miei occhi, decadono e a una a una se ne vanno; sono io che senza rimedio passo. Senza rimedio ma non senza speranza?

***

Quando parlo del tempo, è inevitabile che mi viene in mente Agostino d’Ippona (che al tema ha dedicato a questo argomento interessanti): «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più!».

È per questo che si sono moltiplicate all’infinito le definizioni di questa realtà che scandisce la storia esterna a me ma che batte intimamente anche dentro me: illuminante è al riguardo la distinzione greca tra chrónos, che è il tempo 'cronologico', convenzionale, esterno a me, e kairós, cioè il tempo esistenziale, personale, pieno di eventi, emozioni e pensieri (un’ora di una noiosa lezione e un’ora con la persona amata hanno un identico chrónos ma un ben diverso kairós!).


Il tempo, «quel vile avversario», come lo chiamava Valéry, è dunque la realtà più decisiva per definire il mio essere materiale ma anche il mio esistere interiore, è «la sostanza di cui sono fatto», come diceva Borges che, nell’opera Altre inquisizioni (1952), proseguiva: «Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è la tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è il fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco ». Il tempo è, sì, fiume, tigre e fuoco ma non è un nemico esterno a me, è in me, nel mio intimo, nel mio essere creatura fragile e finita.


Gramsci nelle Lettere dal carcere lo definiva «un semplice pseudonimo della vita»; è l’essenza dell’esistenza, è sempre in me, qualcosa di m. Per questo faccio di tutto per ignorarlo; il ticchettio di un orologio mi toglie il sonno ma, in realtà, dovrebbe togliermi di dosso la superficialità, le meschinità e farmi pensare più spesso alle parole: «Tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate» (Luca 12,40).

In questa luce tempo ed eterno si annodano tra loro, pur essendo così differenti tra loro. Certo, io che guardo o vivo nella prospettiva del tempo sento ancora remota la pienezza dell’eternità. Non per nulla Paolo usa immagini di parto, di attesa, di tensione impaziente perché il mio tempo è 'pesante', segnato dal male e scandito dal dolore e dalla morte (Rm 8,18-27).

Tuttavia se mi metto dall’angolo di visuale dell’Infinito, cioè dell’eternità, non ho – come succede nel tempo – un 'prima' e un 'dopo'. Tutto è contratto e condensato in un punto, in un istante, in un evento unico e compiuto. In esso c’è già la pienezza di quel seme, c’è la meta di quell’attesa, ci sono già la salvezza e il giudizio, la morte e la risurrezione: «Chiunque crede nel Figlio dell’uomo ha già la vita eterna» (Gv 3,15). Con l’Incarnazione si ha un’unione intima tra due realtà antitetiche, il tempo e l’eterno.

È quello che dice Thomas S. Eliot nei suoi Quattro Quartetti: «Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno/ e il tempo è un’occupazione da santo».

Aeterna fac cum Sanctis tuis in gloria numerari!


E’ quello che mi auguro per questo Nuovo Anno!

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