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LA PESTE CHE FA PENSARE


Rimango sconcertato davanti a questa nuova peste (il coronavirus o Covid-19) di cui non conosciamo né l’origine, né i reali dati di diffusione, né le possibili conseguenze. Quello che però si sa è che le pandemie sono sempre state considerate nella storia come flagelli divini e che l’unico rimedio che la Chiesa ha opposto ad esse è stata la preghiera e la penitenza. Così accadde a Roma nell’anno 590, quando Gregorio della famiglia degli Anicia sul Celio, fu eletto Papa definito il Grande (540-604).


L’Italia era sconvolta da malattie, carestie, disordini sociali e dall’onda devastatrice dei Longobardi. Tra il 589 e il 590, una violenta epidemia di peste, la terribile luesinguinaria, dopo aver devastato il territorio bizantino ad Oriente e quello dei Franchi ad Occidente, aveva seminato morte e terrore nella penisola e si era abbattuta su Roma. I romani interpretarono questa epidemia come un castigo divino per la corruzione della città. La prima vittima fu Pelagio II, che morì il 5 febbraio 590 e fu sepolto in San Pietro.

Il clero e il senato romano elessero come suo successore Gregorio che, dopo essere stato praefectus urbis, viveva al Celio (uno dei sette Colli di Roma).

Gregorio di Tours (538-594), racconta che in una predica in Santa Sabina (sull’Aventino), Gregorio invitò i romani a seguire, l’esempio biblico degli abitanti di Ninive: «Guardatevi intorno: ecco la spada dell’ira di Dio brandita sopra l’intero popolo. La morte improvvisa ci strappa dal mondo, senza quasi darci un minuto di tempo. In questo stesso momento, oh quanti son presi dal male, qui intorno a noi, senza neppure potere pensare alla penitenza».


Gregorio Magno invitò quindi a guardare a Dio, che permette questi castighi per correggere i cristiani e, per placare la Sua collera, ordinò una «litania settiforme», cioè una processione dei romani, divisa in sette cortei, secondo il sesso, l’età e la condizione.

Nella disperazione dei romani Gregorio volle portare in processione il quadro della “Salus Populi Romani” (Salute del Popolo Romano) conservata in Santa Maria Maggiore e che la tradizione vuole dipinta dall’evangelista Luca (Gregorio di Tours, Historiae Francorum, liber X, 1, in Opera omnia, a cura di J.P. Migne, Parigi 1849 p. 528).

La Leggenda aurea, di Jacopo da Varazze, dice che man mano che la sacra immagine avanzava, l’aria diventava più pulita e che il fetore della peste scompariva. Arrivati davanti a Castel Sant’Angelo (il mausoleo di Adriano) si udì un coro di angeli che cantavano: «Regina Coeli, laetare, Alleluja – Quia quemmeruisti portare, Alleluja – Resurrexit sicut dixit, Alleluja!».

Gregorio rispose ad alta voce: «Ora pro nobis rogamus, Alleluja!».

Nacque così il Regina Coeli, l’antifona con cui nel tempo pasquale la Chiesa saluta Maria Regina per la risurrezione del Salvatore. Dopo il canto, Gregorio, vide sulla sommità del Castello un Angelo che, dopo avere asciugato la spada grondante di sangue, la riponeva nel fodero, in segno del cessato castigo.

«Tunc Gregorius vidi super Castrum Crescentii angelum Domini qui glaudium cruentatum detergens in vagina revocabat: intellexit que Gregorius quod pestisilla cessasset et sic factum est. Unde et castrum illud castrum Angeli deinceps vocatum est».

Gregorio capì che la peste era finita e così avvenne: e quel castello fu d’allora in poi chiamato il Castello dell’Angelo (Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Edizione critica a cura di Giovanni Paolo Maggioni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 1998, p. 90).


Da quel momento il mausoleo di Adriano venne chiamato “Castel Sant’Angelo” e i romani misero a ricordo del prodigio, in cima al castello la statua di san Michele.

Ancora oggi nel Museo Capitolino è conservata una pietra circolare con le impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero state lasciate dall’Arcangelo quando si fermò per annunciare la fine della peste. Anche lo storico Cesare Baronio (1538-1697), conferma l’apparizione dell’Angelo in cima del castello (Odorico Ranaldi, Annali ecclesiastici tratti da quelli del cardinal Baronio, anno 590, Appresso Vitale Mascardi, Roma 1643, pp. 175-176).

Osserviamo solo che se l’Angelo, grazie alle preghiere di Gregorio, rinfoderò la spada, vuol dire che essa era stata prima sguainata per punire i peccati del popolo romano. Gli Angeli sono infatti gli esecutori dei castighi divini dei popoli, come ci ricorda la drammatica visione del Terzo segreto di Fatima, esortandoci al pentimento: «un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva grandi fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo intero; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l’Angelo, indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: Penitenza, Penitenza, Penitenza!».


La diffusione del Coronavirus ha un qualche rapporto con la visione del Terzo Segreto? Il futuro ce lo dirà. Ma l’appello alla penitenza resta la prima urgenza della nostra epoca e il primo rimedio per assicurarci la nostra salvezza, nel tempo e nell’eternità. Le parole di Gregorio Magno devono ricordarci: «Cosa diremo degli avvenimenti terribili di cui siamo testimoni se non che sono preannunci dell’ira futura? Pensate dunque fratelli carissimi, con estrema attenzione a quel giorno, correggete la vostra vita, mutate i vostri costumi, sconfiggete con tutta la vostra forza le tentazioni del male, punite con le lacrime i peccati compiuti» (Omelia prima sui Vangeli, in Il Tempo di Natale nella Roma di Gregorio Magno, Acqua Pia Antica Marcia, Roma 2008, pp. 176-177).


E’ di queste parole, non del sogno dell’Amazzonia felix, che avrebbe oggi bisogno la Chiesa, che appare oggi come la descriveva Gregorio ai suoi tempi: «Nave vetusta e terribilmente squarciata; dappertutto infatti entrano i flutti e le tavole marcite; squassate dalla violenta e quotidiana tempesta, fanno presagire il naufragio (Registrum I, 4 ad Ioann. episcop. Constantinop.)». Ma allora la Divina Provvidenza suscitò un nocchiero che, come afferma Pio X, «tra l’imperversare dei marosi seppe non solo toccare il porto, ma anche mettere al sicuro la nave dalle tempeste future» (Enciclica Jucunda sane del 12 marzo 1904).

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