QUEL FREDDIE CHE HO SEMPRE AMMIRATO
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Ho visto l’altra sera, insieme agli amici, il film su Freddie Mercury. L’artista che ho seguito molto negli anni di liceo. Infatti, mentre vedevamo il film, ci ricordavamo le sensazioni di allora. Momenti belli e ricchi di spunti felici...
Ho letto dalla stampa e dalla Tv che il film è stato un grande successo. Mi chiedo: perché un grande successo per la storia di un uomo come Freddie Mercury e la sua band, gli intramontabili Queen? Passi per gli appassionati di rock che l’hanno continuato a seguire nel tempo, ma come mai oggi accorrono spettatori di ogni età per ammirare e ascoltare Freddy e i suoi, per conoscerne la straordinaria vicenda umana e i segreti di canzoni che, anche chi non le conosce, ha canticchiato almeno una volta? We are the champions del 1977, è spesso usata come sottofondo per celebrare vittorie sportive; eppure, più che una vittoria, è l’espressione dell’ambizione smisurata e insieme della sofferenza profonda di Freddie, che proclama la sua dedizione alla lotta, a costo di ogni sofferenza, per sfidare “la razza umana” con la sua musica.
Ma Freddie Mercury, così imponente nelle sue esibizioni che calamitavano il pubblico in una sorta di estasi da lui guidata, in realtà era fragile, vulnerabile e indifeso. “Ho creato un mostro”, diceva. “Quel mostro sono io. Non posso incolpare nessuno. È ciò che volevo fin da piccolo. È quello che cerchiamo tutti: successo, fama, soldi, sesso, droga… Ma ora inizio a capire che anche se l’ho creato io, voglio sfuggirgli”. Questo squarcio di sincerità rivolto nei suoi ultimi anni alla futura biografa, la giornalista Lesley-Ann Jones, ci mostra l’altra faccia del grande showman, del genio musicale dalla voce magica (con un’estensione vocale di quattro ottave) che, con la sua instancabile creatività, ha scritto e interpretato con il suo gruppo canzoni che rivelano noi a noi stessi, attraverso le gioie e i tormenti del Great Pretender (Il grande simulatore), titolo di una sua famosa interpretazione.
Timido e affascinante, capriccioso e generoso, attratto da ogni eccesso pur di potersi esprimere, incapace di conoscersi veramente (a parte quando saliva sul palco con la sua arroganza magnetica), Freddie recava sul volto e nell’anima i segni di un passato tortuoso e doloroso: le radici parsi-indiane - era nato il 5 settembre 1946 in una famiglia di religione zoroastriana - l’infanzia a Zanzibar, il collegio anglicano in India all’età di otto anni, lontano migliaia di chilometri dai genitori, dove c’era una disciplina rigida e condizioni di vita austere. Freddie, il cui vero nome era Farrokh Bulsara, accettò tutto ma soffrì per la carenza d’affetto, che divenne in seguito vulnerabilità drammatica, e che forse è stata poi all’origine della sua ricerca ossessiva e trasgressiva del contatto fisico promiscuo in età adulta. Poi una nuova vita in Inghilterra, il diploma in grafica e illustrazione, la partecipazione a qualche gruppo rock e finalmente l’incontro con i futuri membri dei Queen: nome inventato da Freddie, che cambia in questa occasione il suo cognome: da Bulsara a Mercury (“messaggero degli dei”).
Il film Bohemian Rapsody mi ha colpito proprio perché, ripercorrendo la storia di Freddie fino al grandioso concerto Live Aid del 13 luglio 1985, documenta in modo impeccabile, e discreto, il cammino dell’artista verso la sua tormentata identità umana e la suo successo artistico, che preludono alla tragica fine per malattia il 24 novembre 1991, a soli 45 anni. Molti considerano il film retorico e superficiale, troppo edulcorato e quasi agiografico, decisamente lontano da quell’icona scandalosa, l’esplosivo demiurgo del palco e della musica, che ritengono essere i soli a saper e voler preservare.
Ma la stragrande maggioranza delle persone che va a vedere il film, invece, cercano forse proprio quello che i membri restanti dei Queen, compagni di vita di Freddie, hanno voluto trasmettere e che hanno approvato sorvegliando l’intera operazione cinematografica: il senso del rock di quegli anni Settanta-Ottanta e dell’esistenza terrena di un genio emerge prepotentemente dalle sue debolezze e dai suoi eccessi insieme alla sua band. Del resto il rock sin dai suoi inizi ha avuto la capacità di proporsi come interprete dei sogni, dei desideri, delle proteste dei giovani, ma in realtà molte canzoni di Mercury e dei Queen mostrano come questa musica di rottura affascini generazioni diverse, ancor oggi in cui sembrano prevalere modelli musicali dal linguaggio volgare e violento, lontanissimi da quella profondità.
Il loro segreto? Davano voce alle profonde aspirazioni dell’uomo, con una risposta che si faceva quasi poesia. C’è sempre il rischio che il narcisismo, l’ideologia e in fin dei conti la debolezza umana trasformino l’energia, la ribellione all’ingiustizia e all’omologazione in qualcosa di tragicamente distruttivo per l’artista e chi lo segue: questo è accaduto anche a Freddie, che tuttavia era pronto a pagare il prezzo della creatività eccezionale da lui scoperta dentro di sé spezzando la sua anima.
In Somebody to love ritorna continua la domanda al Signore: “Chi può trovarmi qualcuno da amare?”, perché in realtà è proprio questo il desiderio dell’uomo. in I want it all emerge un’esigenza perentoria: “Voglio tutto! E lo voglio ora”, con parole e musica che hanno fatto sognare un futuro grande a quella gioventù che voleva vivere con tutta se stessa, fino in fondo, così come Freddie voleva dare tutto se stesso al suo pubblico. E che dire del tema dell’immortalità trattato in Who wants to live forever, scritta dal compagno del Gruppo Brian May, che ci propone parole come queste: “Chi vuole vivere per sempre?/Chi ha il coraggio di amare per sempre…/ Quando l’amore è destinato a morire?/Ma sfiora le mie lacrime con le tue labbra/ Tocca il mondo con la punta delle dita/ E potremo averci in eterno!/ E potremo amarci per sempre/L’eternità è il nostro oggi/Chi vuole vivere per sempre?/ L’eternità è il nostro presente/ Ma chi aspetta in eterno?”.
Più complessa e profondamente affascinante nel suo significato piuttosto oscuro è la geniale Bohemian Rhapsody che, per la sua forza d’immaginazione e di creazione musicale, è stata scelta a buon diritto come titolo del film. Successo strepitoso del 1975, con una struttura innovativa che mescola generi musicali diversi: una corale cantata a cappella, un segmento in stile ballata con un assolo di chitarra, un passaggio d’opera, una sezione di hard rock e un segmento conclusivo in stile ballata con sezione finale di solo piano e chitarra. Questa incredibile invenzione musicale è accostata a un testo complesso e fascinoso, con riferimenti religiosi e velati cenni autobiografici, sottesi a immagine allegoriche.
La critica allora la bocciò, ma il pubblico ne resta incantato ancor oggi al cinema e in rete, dove è il brano più ascoltato del XX secolo. Il significato resta misterioso, del resto il chitarrista del Gruppo Brian May ha commentato: “Freddie era una persona molto complessa. Irriverente e divertente in superficie, ma con un’anima che arrivava a strane profondità. Della sua infanzia non ha mai parlato granché, ma c’è molto di lui e delle sue origini in quella canzone”. Il suo genio creativo è rimasto infatti segnato dalla sua infanzia solitaria, dal suo struggente bisogno di amore e fedeltà, dalla necessità di essere se stesso a costo di intraprendere strade di liberazione devastanti, legate alla sua ambigua sessualità.
The show must go on incarna perfettamente lo sguardo di Freddie sulla vita e la sua arte: “Lo spettacolo deve andare avanti…/Sempre avanti, c’è qualcuno che sappia quel che cerchiamo?/…Sempre avanti, c’è qualcuno che sappia per cosa viviamo?/Fuori sta scoppiando l’alba/Ma dentro al buio sto soffrendo per essere libero.../So volare amici miei/Lo spettacolo deve andare avanti/Lo affronterò col sorriso/Non mi arrenderò mai”.
Sicuramente non si possono negare gli eccessi di Freddie e ignorare le scelte fuori dalle regole e scandalose di cui lui aveva piena coscienza, tanto da non aver mai allontanato la donna di cui è stato sempre innamorato, Mary Austin, malgrado tutti i suoi vizi e festini trasgressivi. Ma il film Bohemian Rhapsody non li mette in primo piano, privilegia invece la storia di un grande artista inserito nell’affetto turbolento del suo Gruppo; dalla sua ferita interiore ha saputo creare la bellezza che gli è letteralmente costata la vita, aprendo per noi orizzonti di desiderio vero in quella ricerca di felicità infinita che segna la vita di ogni essere umano.