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LA BUFALA DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

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La propaganda martellante che da anni lancia quotidiani allarmi sul riscaldamento globale di origine antropica ha ormai prodotto nell'immaginario collettivo una percezione distorta della realtà, dai meccanismi della natura al rapporto tra sviluppo e ambiente, dalle conoscenze sul clima al ruolo delle attività umane. In questa sezione quindi si trovano una serie di articoli che affrontano singoli aspetti della realtà distorti dalla propaganda cambioclimatista.

Cominciamo dalle radici del movimento contro i cambiamenti climatici, che non sono affatto scientifiche ma politiche e ideologiche. Non a caso abbiamo visto in questi giorni l'adolescente icona della lotta ai cambiamenti climatici, Greta Thunberg, dare il proprio sostegno al Gay Pride svedese.

ALLARMISMO CLIMATICO, E' PIU' POLITICA CHE SCIENZA

di Riccardo Cascioli

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La faccia sorridente di Greta Thunberg, l’adolescente diventata simbolo della lotta contro i cambiamenti climatici, che dalla sua pagina Facebook inneggia al Gay Pride di Stoccolma, può aver sorpreso le persone più ingenue, e messo in imbarazzo qualche giornalista e intellettuale cattolico salito frettolosamente sul carro del “modello Greta”. Ma è perfettamente coerente con ciò che la lotta al riscaldamento globale o ai cambiamenti climatici rappresenta.

Non ci vorrebbe molto per rendersene conto, ma il clima di isteria collettiva che è stato creato su questo argomento, l’allarmismo esasperato che ci raggiunge quotidianamente attraverso giornali, radio e tv, il martellamento della propaganda che da anni è costante hanno ormai generato nell’opinione pubblica una distorsione nella percezione della realtà. Siamo ormai convinti di vivere nel peggiore dei mondi possibili, sull’orlo del baratro, in ansia per ciò che il clima ci potrà riservare nel prossimo futuro a causa delle nostre cattive azioni.

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E in questa situazione, con un’umanità con le spalle al muro, a essere sacrificato è l’esercizio della ragione, la capacità di interrogarsi su ciò che ci viene propinato o imposto, guardare alla realtà per quello che è. È così che davanti a una adolescente affetta da sindrome di Asperger, che parla come un libro stampato pur non avendo alcuna cognizione scientifica seria, invece di invocare l’intervento degli assistenti sociali (qui sì che ci vorrebbero) per strapparla a quanti la stanno usando per scopi ideologici e commerciali, la si fa diventare una specie di sacerdotessa che officia in tutte le sedi internazionali e davanti alla quale si inginocchiano tutti i grandi della Terra, per non dire gli intellettuali e gli ecclesiastici cattolici. Una situazione ridicola, senza precedenti, di cui non ci si rende neanche conto.

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Ma appunto, come si diceva, anni di propaganda martellante hanno prodotto uno stordimento, una grave distorsione nella comprensione della realtà, dai meccanismi della natura al rapporto tra sviluppo e ambiente, dalle conoscenze sul clima al ruolo delle attività umane. 

Proprio il caso di Greta con la bandiera arcobaleno ci dà l’occasione per affrontare brevemente un primo aspetto della questione, ovvero il legame tra diverse ideologie oggi dominanti: l’ecologismo e l’omosessualismo, innanzitutto. Stando alla presentazione delle notizie che ci arrivano a proposito di cambiamenti climatici, siamo portati a pensare all’esistenza di una verità scientifica (il riscaldamento globale causato dall’uomo, che ci sta portando alla catastrofe) a cui i capi di governo non danno abbastanza credito, visto che ci vogliono anni per arrivare a degli accordi internazionali e sono comunque troppo generici.

Nella vicenda dei cambiamenti climatici però, gli scienziati sono solo dei comprimari, forniscono il pretesto, danno un tocco di verosimiglianza alla vicenda; ma in realtà la matrice della campagna è ideologica e la regia è politica.

L’ambientalismo oggi dominante ha le radici lontane nel tempo, radici che arrivano fino alle Società Eugenetiche che fiorirono soprattutto nel mondo anglosassone tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e derivano dal Darwinismo sociale. Dalle stesse Società Eugenetiche nascono anche il movimento per il controllo delle nascite e il femminismo radicale. Individualismo estremo e la visione di un mondo solo per i sani ed efficienti sono due caratteristiche che accomunano tutti questi movimenti.

Così l’ambientalismo è fin dalle origini conservazione della natura e tentativo di contenere la presenza umana. Il mito della sovrappopolazione precede nel tempo quello del riscaldamento globale, ma il modus operandi è lo stesso e anche l’obiettivo. Tanto è vero che negli anni ’70 del XX secolo il rapporto tra ambientalismo e movimento per il controllo delle nascite si salda al grido di “la popolazione inquina”. Anche la promozione dell’omosessualità deve molto al movimento per il controllo delle nascite, e il motivo è evidente: la coppia omosessuale è per sua natura sterile e, quindi, quanti più omosessuali ci sono tanto è più facile ottenere il calo della fertilità.

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La causa dei cambiamenti climatici, con tutte le paure ad essa collegate, va nella stessa direzione, tanto è vero che c’è un rilevante movimento d’opinione che si impegna ad avere un numero minimo di figli o addirittura niente per salvare il pianeta.

Nel rapporto tra movimenti Lgbt e gruppi che si battono contro i cambiamenti climatici entrano poi fattori contingenti. Da anni ormai, alle marce per il clima, soprattutto negli Stati Uniti, partecipano appositi gruppi Lgbt, come i Queer per il clima. Il filo che li lega - basta leggere i loro articoli e saggi al riguardo - è anche la percezione di una comune lotta di liberazione, lotta per la giustizia sociale, dove le strategie vincenti degli uni (gli Lgbt) fanno da scuola agli altri. Né si deve dimenticare che tutti questi movimenti ideologici e culturali trovano la loro cassa di risonanza nelle agenzie delle Nazioni Unite, da cui nascono e si diffondono le parole d’ordine che diventano ben presto patrimonio comune.

Del resto queste correnti ideologiche hanno conosciuto il successo quando hanno incontrato la politica: è così che, contrariamente a quello che si pensa, anche la scienza è diventata a servizio della politica. Checché se ne pensi, sono i governi e le forze politiche a tenere le fila degli allarmismi climatici. Basti solo un esempio: l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo Onu che si occupa dei cambiamenti climatici. È conosciuto come il massimo organismo scientifico, autore dei famosi Rapporti che sono la principale fonte per le politiche globali che riguardano i cambiamenti climatici.

In realtà l’Ipcc non solo non svolge attività scientifica in proprio (i rapporti sono solo una raccolta e una sintesi degli studi disponibili), ma è un organismo prettamente politico, sebbene sia composto anche da scienziati. Lo dice il nome stesso: si chiama infatti “Gruppo intergovernativo”, perché sono i governi a decidere chi dirige e sono i governi ad avere l’ultima parola sul rapporto finale. Non a caso in questi anni ci sono stati molti casi di autorevoli scienziati che si sono dimessi proprio per l’impostazione ideologica e politica che si vuole dare all’esame scientifico. E infatti anche gli ultimi presidenti dell’Ipcc non sono affatto scienziati: l’indiano Rajendra Pachauri, che ha tenuto la posizione dal 2002 al 2015, è un ingegnere esperto di ferrovie, mentre l’attuale, il coreano Hoesung Lee, è un economista.

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1 allarmismo climatico

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PANICO DA RISCALDAMENTO? CALMI, IL CLIMA E' SEMPRE CAMBIATO

di Riccardo Cascioli

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La prima vittima della martellante propaganda sui cambiamenti climatici è la natura o, meglio, la nostra comprensione della natura. Terrorizzati ormai da ogni piccolo segnale di cambiamento, nell’immaginario collettivo la natura è statica, ha un suo definito punto di equilibrio che l’uomo – con la sua presenza e attività – ha fatto saltare. Siamo portati a pensare che la normalità stia nella staticità, in una sorta di fermo immagine che dura all’infinito. Invece la natura è dinamica, è in continuo cambiamento, non c’è mai una stagione uguale all’altra. E i cambiamenti climatici, lungi dall’essere un fenomeno nuovo, conseguenza di chissà quali nefandezze umane e foriero di catastrofi inimmaginabili, sono la normalità.

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Senza neanche scomodare le cinque ere glaciali che hanno caratterizzato la storia della terra, e ben prima della comparsa dell’uomo, anche nell’attuale era ci sono stati almeno quattro periodi glaciali (con un forte avanzamento dei ghiacciai) intervallati da periodi interglaciali (della durata di 10-12mila anni), uno dei quali è quello che stiamo vivendo e che dura da circa 10.700 anni.

Ma anche questi periodi interglaciali non sono uniformi: solo per stare ai tempi più recenti, gli storici del clima riconoscono periodi di riscaldamento ai tempi dell’Impero romano e nel Medio Evo (guarda caso chiamati “optimum”), e periodi di raffreddamento, il più importante dei quali si è registrato tra il XVI e il XIX secolo e fu chiamato la “piccola era glaciale”. Dalla metà del XIX secolo è iniziato invece un nuovo periodo di riscaldamento che dura tuttora, ma che in 160 anni ha prodotto un aumento di temperature medie tra gli 0.8 e 1°C.

Ma neanche quest’ultimo periodo di riscaldamento è lineare: a un aumento delle temperature globali al suolo tra il 1850 e il 1878 (+0,5°C) succede una fase di decremento (nel 1911 siamo a -0.2°C rispetto al 1850) e poi un nuovo incremento fino al 1945 (+0.5°C rispetto al 1850). Da qui comincia un nuovo periodo di raffreddamento che dura fino al 1976, quando la temperatura è di appena 0.1°C superiore a quella del 1850. E si ricorderà infatti che a metà degli anni ’70 c’erano continui allarmi sul raffreddamento globale. Quindi, da quel momento la temperatura ha ripreso a salire fino al 1998 (+0.85°C), ma dal 1998 le variazioni sono minime e, malgrado i continui allarmi sui mesi e sugli anni più caldi di sempre, si registra una sostanziale stabilizzazione delle temperature.

Ma anche senza uno studio sui cicli del clima, dovrebbe appartenere alla esperienza di ciascuno la consapevolezza che ogni stagione è diversa dall’altra; che, pure all’interno di una certa fascia climatica, si registrano variazioni continue e anche eventi estremi. Basti pensare a come i vini vengono classificati in base all’anno di vendemmia, proprio perché ogni stagione è una storia a sé.

Oggi invece, spinti anche dalle continue campagne sul riscaldamento globale, si pretenderebbe che la natura fosse ferma, immobile. Se i notiziari ci informano che in questa settimana si è registrata una temperatura di un grado superiore alla media stagionale, scatta il panico: finiremo arrostiti, saremo sommersi dalle acque. Notizie date apposta per creare allarme, nessuno dice che la media stagionale è solo un dato statistico, non corrisponde affatto alla temperatura normale, quella che dovrebbe essere.

Non entriamo qui nel dibattito su quanto del rialzo delle temperature sia dovuto ai cicli naturali e quanto all’attività umana – cosa peraltro su cui non esistono certezze - ma sta di fatto che abbiamo perso la cognizione della dinamicità della natura. Addirittura assistiamo a manifestazioni pubbliche e grandi iniziative politiche contro i cambiamenti climatici, quando abbiamo visto che i cambiamenti climatici sono la normalità. Cose che in altri tempi suonerebbero ridicole e da ricovero in psichiatria, oggi sono vissute seriamente come la questione più importante per l'umanità.

 

Questa drammatica distorsione nella percezione della realtà - chiaramente voluta da chi sta manovrando il tema “clima” - è sicuramente facilitata anche dal fatto che viviamo sempre meno a contatto con la natura. Basti pensare che in Europa circa il 75% delle persone vive in realtà urbane, lontano da un rapporto con la natura; e soprattutto le giovani generazioni – nate e cresciute in realtà dove qualsiasi tipo di frutta e verdura è disponibile tutto l’anno e il cibo è già tagliato e pronto per l’uso al supermercato – non hanno conoscenza diretta dei cicli della natura, di come la natura funzioni.

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Ma c’è anche una costante nel rapporto uomo-clima che si lega allo sguardo che l’uomo ha sulla realtà e sul proprio destino. Per capirci citiamo un sermone di Sant’Agostino, che scrive queste cose nel IV secolo: «Vedete come stanno le cose. Viviamo in tempi brutti. Anche i nostri padri deplorarono di dover vivere brutti tempi, e anche i padri dei nostri padri. A nessun uomo sono mai piaciuti i tempi in cui è dovuto vivere. Ma chi vive dopo rimpiange i tempi andati. Ogni anno per lo più diciamo, quando sentiamo freddo: “Non ha mai fatto tanto freddo”. O anche diciamo: “Non ha mai fatto tanto caldo”. Tempi brutti! Ma son proprio brutti tempi quelli collegati con il movimento del sole?».

 

Così nel passato, gli scienziati – perlopiù cattolici – guardavano ai cambiamenti climatici studiandoli, cercando di capire i meccanismi della natura, per meglio adattarsi e proteggere le comunità degli uomini. Ricordiamo ad esempio l’abate e scienziato Antonio Stoppani (1824-1891) che, nella sua opera più nota – Il bel Paese – descriveva il ritirarsi dei ghiacciai alpini legato al riscaldamento della seconda metà dell’Ottocento. Era una descrizione del fenomeno e un tentativo di comprenderlo dal punto di vista scientifico. Nessun allarme, nessuna preoccupazione per il ritiro delle nevi alpine, anche perché non era passato molto tempo che i ghiacciai del Monte Bianco erano così estesi da minacciare i paesi sottostanti.

Nel 1881, dopo aver tenuto ai Lincei una applaudita relazione «Sull’attuale regresso dei ghiacciai sulle Alpi», al re Umberto di Savoia, che era presente e si mostrava preoccupato per l’evoluzione, Stoppani rispose: «Non si preoccupi, lasci fare alla Provvidenza». Non era fatalismo, era una conoscenza profonda della realtà. Non per niente oggi l’allarmismo climatico e la pretesa di poter regolare la temperatura della terra come se avessimo in mano un termostato, si accompagna alla cancellazione di Dio dalla storia, alla presunzione che sia l’uomo il padrone del cosmo e della storia. Se c’è una novità, un vero cambiamento, è che anche nella Chiesa ci si è accodati a questa visione atea.

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RISORSE ESAURITE? E' SOLO PROPAGANDA

RISORSE ESAURITE? E' SOLO PROPAGANDA PER IMPORRE LEGGI "VERDI"

di Riccardo Cascioli

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Legato alla grave distorsione della realtà della natura, è il tema delle risorse, fonte di un gravissimo equivoco. Nei giorni scorsi anche papa Francesco, in una intervista, ha citato l’Overshoot Day (il giorno del superamento del limite), ovvero il giorno in cui l’umanità finisce di usare tutte le risorse generate in un anno. Giorno che quest’anno sarebbe caduto il 29 luglio e, neanche a dirlo, ogni anno si anticipa il giorno in cui la Terra entra “in riserva”: tanto per dare un’idea, nel 2008 l’Overshoot Day era stato fissato al 23 settembre. Come a dire: le cose non solo vanno male, vanno sempre peggio e la catastrofe è vicina. Del resto, se fosse vero che da ormai tanti anni l’uomo vive ben oltre i limiti consentiti dalla finitezza della Terra, ci sarebbe da stupirsi del fatto che ci siamo ancora, e anche in buona forma.

 

Il tema è strettamente connesso a quello dei cambiamenti climatici non solo per l’esito che si prospetta – comunque vada, sarà una catastrofe – ma anche per l’idea di un uso delle risorse ben oltre i limiti che, in un caso, provocherebbe un’impennata del riscaldamento della terra e dall’altra l’esaurimento delle risorse.

Che, essendo la Terra finita, anche le risorse a disposizione lo siano, sembrerebbe una affermazione di puro buon senso. In realtà, le cose non stanno proprio così e il nodo della questione è proprio sul concetto di risorse. La teoria della “Terra in riserva” implica che il concetto di risorsa sia definito dalla natura.

Chi sostiene questa teoria porta il classico esempio della torta (o anche del barattolo di caramelle): c’è una sola torta a disposizione al giorno, che soddisfa adeguatamente dodici bambini; se i bambini aumentano non ce ne sarà abbastanza per tutti, per cui o qualcuno rimarrà senza o tutti ne mangeranno al di sotto della necessità; se invece qualcuno, goloso, ne prenderà doppia razione ecco che qualcun altro rimarrà senza. Così, si dice, è anche delle risorse che la Terra ci mette a disposizione; e da qui nasce anche tutto il discorso – con conseguenti accordi internazionali - dei paesi ricchi che devono compensare i paesi poveri, a causa di quel che hanno consumato per diventare ricchi (e così inquinare e cambiare il clima). Inoltre, se la torta è data e i bambini cominciano a essere troppi, si pone il problema di come limitare i bambini (il discorso della sovrappopolazione).

 

La realtà però ci dice che questo concetto di risorsa, come definita dalla natura, è gravemente errato. Se così fosse, la quantità di risorse dovrebbe essere un dato conosciuto, misurabile e immutabile. Il che non è affatto così. Anzi, nella storia le risorse sono andate sempre diversificandosi e moltiplicandosi. Se pensiamo ai minerali, ad esempio, vediamo che nel XX secolo le riserve conosciute di tutti i minerali sono moltiplicate (e i costi diminuiti) in misura ben maggiore rispetto all’aumento della popolazione che, pure, nel giro di un secolo è quadruplicata. Solo tra il 1950 e il 1990 la disponibilità di bauxite è aumentata del 1.436%, il cromo del 500%, il rame del 250%, il ferro del 663%, e così via. Nello stesso periodo le riserve conosciute di petrolio sono aumentate del 863%.

Non è qui possibile trattare in dettaglio l’argomento (per un approfondimento rimando al libro R. Cascioli-A. Gaspari “I padroni del pianeta”, Piemme 2009), però  vediamo alcuni punti fondamentali per comprendere questo punto.

 

Anzitutto cosa definisce una risorsa? Lo spiega qualsiasi dizionario: essa è un mezzo per provvedere a un bisogno, a una necessità. L’acqua non è una risorsa in sé, ma in quanto risponde a un bisogno, fosse anche solo per essere guardata, come nel caso di laghi o mari o ruscelli di montagna. Come prima cosa dunque, si deve riconoscere che a definire la risorsa è il bisogno dell’uomo che, a sua volta, valorizza ciò che c’è nella natura. Tra uomini e risorse dunque, il rapporto – nella sua essenza – non è conflittuale.

Seconda questione: proprio da quanto ora detto segue che le risorse valgono in quanto servono a qualcosa. Noi siamo interessati non alla risorsa in sé ma al servizio che la risorsa ci offre. Il petrolio è una risorsa in quanto, ad esempio, carburante che permette alle automobili di muoversi.

Inoltre, elemento fondamentale per cui la risorsa può essere definita tale è il lavoro dell’uomo. Se pensiamo a qualsiasi minerale, c’è dietro un lavoro di esplorazione, estrazione, lavorazione e così via. E questo vale anche per le risorse più “naturali”, come l’acqua: nessuno va infatti a bere e prendere acqua alla sorgente, ci arriva direttamente in casa grazie al lavoro di chi ha ideato e realizzato acquedotti, condutture, impianti di potabilizzazione e purificazione, pompe, rubinetteria e così via.

Ancora un elemento da sottolineare è il fatto che, mentre si parla sempre di risorse consumate, mai si menziona il fatto che le risorse vengono anche prodotte. I modi sono diversi, uno di questi è la sostituzione e creazione dei materiali, sempre più efficienti e meno costosi. Ad esempio, l’introduzione dei metalli per costruire le navi ha salvato l’Europa dalla deforestazione; e ancora, la maggior parte dei vestiti che indossiamo oggi è preparata con fibre sintetiche costruite in laboratorio. E si potrebbe proseguire per parecchio.

Ma questo discorso vale anche per le cosiddette risorse non rinnovabili? Come l’acqua ad esempio? Certamente. Basti pensare alle grandi innovazioni tecnologiche: impianti di potabilizzazione, il sistema di irrigazione a goccia (che rende possibile risparmi enormi nel consumo per l’agricoltura, responsabile del 70% del consumo globale di acqua), impianti di desalinizzazione; impianti di purificazione e riciclo delle acque.

La conclusione è evidente: a definire la risorsa non è la natura, ma l’uomo e la sua capacità e creatività di usare gli elementi della natura. L’unica vera risorsa è dunque l’uomo. E da temere sono soltanto quegli Stati o quelle entità sovranazionali che, per un motivo o l’altro, vogliono limitare la presenza dell’uomo o ingabbiare la sua creatività, vincolandola a leggi e regolamenti che hanno proprio lo scopo di dimostrare che è necessario limitare la presenza e l’attività dell’uomo. Esattamente come sta avvenendo con le leggi “ecologiste” e “contro i cambiamenti climatici”.

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PROCESSO ALLA CO2: ASSOLTA

PROCESSO ALLA CO2: ASSOLTA CON FORMULA PIENA

di Riccardo Cascioli

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Quando si parla di distorsione della realtà legata alla propaganda sui cambiamenti climatici, il caso più clamoroso è quello dell’anidride carbonica (CO2). Demonizzata come causa prima del catastrofico riscaldamento globale, ormai considerata nell’immaginario collettivo un “gas satanico”, ogni notizia che aggiorna il suo costante aumento di concentrazione nell’atmosfera viene vissuta con angoscia collettiva (oggi è vicina alle 415 parti per milione, ppm, contro le 315 del 1958).

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In realtà l’anidride carbonica è un gas vitale per la nostra sopravvivenza.

Insieme alla luce e all’acqua, la CO2 è il terzo dei nutrienti fondamentali per le piante e per il processo di fotosintesi. Vale a dire che senza anidride carbonica non ci sarebbe vita umana. Né la concentrazione attuale può essere vista come un rischio per la salute: nel rapporto “Climate Change 2001”, dell’IPCC, l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici, si trova scritto, tra l’altro che la comparsa dei vegetali sul pianeta e la loro colonizzazione della Terra, corrisponde a un periodo in cui la concentrazione della CO2 nell’atmosfera era altissima, oltre le 6.000 ppm, vale a dire a livelli 15 volte superiori a quelli attuali. E a metà degli anni ’90 dello scorso secolo, un rapporto che teneva conto di oltre 300 studi su questo argomento (Plant responses to rising levels of Atmosheric Carbon Dioxide), spiegava che elevando la concentrazione di CO2 fino a 650 ppm, ben 475 varietà di piante studiate registravano un incremento nella crescita di oltre il 50%.

 

Dove nasce quindi l’idea che la CO2 sia un veleno? Semplicemente per il fatto che è uno dei gas serra, responsabili – secondo la vulgata corrente – del riscaldamento globale. Ed è anche il principale gas serra su cui le attività umane incidono direttamente. Ma a parte che anche l’effetto serra è fondamentale per la vita dell’uomo (senza i gas serra non ci potrebbe essere vita sulla Terra dato che la temperatura media globale sarebbe di -18°C contro gli attuali +15), l’anidride carbonica rappresenta solo una piccolissima parte di questi gas: tra l’1 e il 5% (oltre il 90% è rappresentato dal vapore acqueo). In più la CO2 prodotta dall’uomo è a sua volta una piccolissima parte di quanto prodotto dalla natura. Già questo dovrebbe far nascere qualche dubbio sul fatto che l’incremento di CO2 nell’atmosfera sia attribuibile esclusivamente all’uomo.

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Che l’aumento della temperatura globale sia correlata all’incremento di CO2 nell’atmosfera è un’ipotesi scientifica formulata per la prima volta poco più di cento anni fa dallo scienziato svedese Svante Arrhenius. Ma non ha mai avuto un riscontro certo, anzi successivi scienziati hanno attribuito alla CO2 un ruolo sia nell’aumento sia nella diminuzione delle temperature. Posizioni che a volte troviamo anche nella stessa persona. Clamoroso il caso di Stephen Schneider, professore alla Stanford University, consigliere del presidente americano Bill Clinton, uno dei massimi divulgatori della teoria del riscaldamento globale, che però all’inizio degli anni ’70 scriveva saggi e addirittura un libro per spiegare che l’aumento delle emissioni di anidride carbonica avrebbe congelato il pianeta.

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In questa “leggenda nera” sulla CO2 si inserisce poi la sua definizione come “inquinante”, per cui l’aumento di CO2 nell’atmosfera è raccontato come aumento dell’inquinamento. Tale collegamento, peraltro, viene giustificato dal fatto che l’immissione dell’anidride carbonica nell’aria sarebbe legata all’uso dei combustibili fossili, anche questi diventati “nemico numero 1” dell’umanità. Ma la CO2, come abbiamo visto, non solo non è definibile come inquinante ma non è neanche possibile stabilire un rapporto causa-effetto tra inquinamento e CO2. Tanto è vero che – e sono certo che molti saranno sorpresi – nei paesi industrializzati l’inquinamento è in drastica riduzione da decenni, al contrario dei livelli di CO2 che crescono.

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Già nel 2002, nel suo rapporto dedicato alle previsioni ambientali, l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) affermava che nei paesi indusrializzati c’era già stata una diminuzione dell’inquinamento atmosferico pari al 70% in quattro anni. E recentemente l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha presentato un rapporto che conferma quanto già sostenuto dall’Ocse: tra il 1990 e il 2016, nei paesi dell’Unione Europea si registrano fortissimi cali nell’inquinamento, che vanno dal 23 al 91% a seconda dei gas esaminati. Questo non significa che non ci sia inquinamento atmosferico ma che, contrariamente a quello che ci viene fatto credere, non solo non è in crescita ma addirittura in drastico calo.

Quando si parla di inquinamento atmosferico nei paesi sviluppati, ci si riferisce essenzialmente a sei elementi, considerati i più importanti a livello statistico e comparativo: anidride solforosa (SO2), ozono (O3), piombo (Pb), ossidi di azoto (NOx), monossidi di carbonio (CO), polveri sottili (Pm). Tutti questi agenti inquinanti sono in diminuzione, e chiunque può fare una semplice verifica andando sui siti  delle Agenzie regionali per l’Ambiente (Arpa).

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Dunque, l’inquinamento diminuisce mentre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera aumenta. Peraltro, proprio la caccia alle streghe lanciata contro la CO2 rischia di diventare un boomerang dal punto di vista ambientale, perché concentrandosi esclusivamente sulla riduzione delle emissioni di CO2 si tolgono risorse alla ricerca e applicazione di tecnologie meno inquinanti.

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Ancora 1
INQUINAMENTO, SORPRESA...

INQUINAMENTO, SORPRESA: SI STA MEGLIO NEI PAESI SVILUPPATI

di Riccardo Cascioli

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Se c’è un argomento che oggi appare indiscutibile è che il mondo è sempre più inquinato e la causa di questo inquinamento sono i Paesi sviluppati, con le loro industrie con relativo consumo di combustibili fossili, e anche con la loro agricoltura. I paesi poveri ovviamente sono le vittime, sia perché sarebbero depredati delle risorse sia perché pagano le conseguenze dell’inquinamento. Da qui anche tutte le politiche globali, invocate e in parte realizzate, che prevedono il “risarcimento” dei paesi ricchi verso i paesi poveri, con relativo flusso di denaro.

La questione dell’inquinamento sta però in tutt’altro modo. Ci riferiamo anzitutto a quello atmosferico, il più citato negli allarmi, ma il discorso è generale. il problema vero dell’inquinamento, infatti, non è lo sviluppo ma il sottosviluppo. L’equivoco non è certo nato per caso, e un contributo importante a questa manipolazione della verità lo ha dato sicuramente la massiccia propaganda anti-CO2, condannata come inquinante – quando non lo è - e di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata.

Vediamo dunque la questione dell’inquinamento. A spiegare sinteticamente come stanno le cose ci ha pensato l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) che, nella più completa inchiesta sull’inquinamento atmosferico mai effettuata, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2018, afferma che oltre il 90% delle morti correlate all’inquinamento atmosferico avvengono in paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e in Asia. L’indagine si basa sui dati raccolti in 4300 città di 108 paesi e spiega come la maggior parte dell’inquinamento nei paesi a basso reddito si produca all’interno delle abitazioni.

Per cucinare e per scaldarsi, infatti, ben 3 miliardi di persone usano legname, carbone o letame, sprigionando gas altamente inquinanti. Peraltro c’è un legame tra questo tipo di inquinamento e la deforestazione, anche questa in gran parte provocata dalla pratica di una agricoltura primitiva e dalla povertà. Si ricorderà, ad esempio, la grave crisi del Sud Est asiatico del 1997-1998, quando per diverse settimane bruciarono le grandi foreste del Borneo: dieci milioni di ettari di terreno furono avvolti dalle fiamme, soprattutto in Indonesia, e una grande nube per mesi coprì diversi paesi, dal Sud Est asiatico fino alla Cina. Gli incendi furono innescati come conseguenza della grave crisi finanziaria della regione che lasciò senza lavoro milioni di persone, in gran parte immigrati che, tornando nei loro villaggi, avevano bisogno di legna per cuocere cibo e di terreno da coltivare.

Al contrario nei paesi sviluppati l’inquinamento atmosferico, malgrado la propaganda dica il contrario, è in costante diminuzione. E non certo da quando sindaci illuminati si sono inventati le zone C o a traffico limitato. Il processo è iniziato molto prima, anzi si tratta di un processo che accompagna naturalmente lo sviluppo. Quando la principale preoccupazione delle persone è mettere insieme un po’ di cibo quotidiano, non c’è né tempo né risorse per preoccuparsi di altro. È quando i bisogni primari sono soddisfatti che si comincia a guardare alle altre condizioni di vita; è quando aumenta il benessere che cominciano ad esserci risorse per migliorare le condizioni igieniche, sanitarie e ambientali. È una osservazione elementare, ma che è confermata ovviamente dai dati: già nel 2002, il rapporto ambientale dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico, Oecd nell’acronimo inglese), denominato Oecd Environmental Outlook, affermava che nel suo insieme l’inquinamento atmosferico nei paesi industrializzati era diminuito del 70% in quaranta anni, e le previsioni erano di una ulteriore significativa diminuzione nei successivi venti anni. Previsione peraltro confermata dalla realtà: basterebbe consultare i rapporti annuali delle varie Arpa regionali (le agenzie per la protezione dell’ambiente) per avere la conferma di una continua diminuzione dell’inquinamento atmosferico nel corso degli anni.

Ciò peraltro non dovrebbe stupire: l’inquinamento nelle città è principalmente provocato dai sistemi di riscaldamento e dal traffico automobilistico (soprattutto quello pesante). In questi decenni, i vecchi sistemi di riscaldamento a kerosene sono stati quasi completamente sostituiti da sistemi meno inquinanti: nel 2016 il Politecnico di Milano calcolava che nel capoluogo lombardo i 3500 impianti a gasolio ancora in funzione (appena il 2% di tutti gli impianti di riscaldamento) inquinavano dieci volte più di tutto il resto dei sistemi, centrali a gas. E anche le emissioni inquinanti delle automobili sono drasticamente diminuite: basti pensare che un’auto di media cilindrata costruita negli anni ’70 del XX secolo, inquinava quanto più di cento auto dello stesso segmento costruite oggi.

Tutto questo è stato ed è possibile perché lo sviluppo permette di generare quella ricchezza che da una parte rende possibile la ricerca, lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie meno inquinanti, e dall’altra permette ai cittadini di acquistarle.

Qualcuno potrebbe obiettare che comunque tutto questo è soltanto una parziale riparazione all’inquinamento globale causato dalla rivoluzione industriale, con il relativo uso dei combustibili fossili. Che è come dire che, quanto a inquinamento, si stava meglio nel 1700. Ma anche questo non è corretto. Sono tante le testimonianze dell’epoca che ci dicono esattamente il contrario e basterebbe leggere una significativa poesia di Giuseppe Parini, scritta nel 1759, La salubrità dell’aria. C’è una descrizione realistica dell’aria nauseabonda che si respira a Milano, che al confronto la Milano di oggi appare come una località di montagna.

Ma anche questo non dovrebbe sorprendere: laddove non ci sono sistemi fognari, non si seppelliscono gli animali morti, dove il sistema di trasporto comune è rappresentato dai cavalli (per la cronaca un cavallo adulto produce circa 15 kg di escrementi al giorno e 20 litri di urina), si può ben capire che la situazione dell’inquinamento può ben diventare drammatica. Ma questa è anche la condizione generale dei paesi attualmente in condizioni di sottosviluppo.

Se davvero si vuole diminuire l’inquinamento perciò, non si deve fermare lo sviluppo, come oggi l’ecologismo dominante pretenderebbe, e come le politiche per il clima sono indirizzate a fare. Al contrario, è proprio lo sviluppo che va incoraggiato e accelerato: per far uscire i popoli dalla povertà e al contempo migliorare le condizioni ambientali grazie alla possibilità di usufruire di nuove tecnologie meno inquinanti.

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SVILUPPO SOSTENIBILE, UN INGANNO CONTRO L'UOMO

di Riccardo Cascioli

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La concezione dello sviluppo è un elemento chiave per comprendere come una propaganda ideologica ambientalista abbia indotto una così grave deformazione della realtà che porta oggi il cittadino comune ad avere un’idea errata dei meccanismi della natura e del rapporto degli uomini con la natura e fra loro stessi. Abbiamo visto nelle precedenti puntate come si sia arrivati a considerare lo sviluppo (e quindi i paesi industrializzati, che usano combustibili fossili) come causa di tutti i mali attuali, ambientali in generale e per il clima in particolare. Quando è invece vero che è il sottosviluppo, con tutte le sue implicazioni, ad essere casomai un problema per l’ambiente.

Questo è però il retroterra – e la falsa credenza - da cui nasce la presunta “terapia”, lo sviluppo sostenibile.

È un dato di fatto che oggi il concetto di “sviluppo sostenibile” sia diventato una parola d’ordine globale. Recentemente anche la Chiesa – come vedremo più avanti – lo ha incluso nel suo Magistero.

Comunemente si fa riferimento a sviluppo sostenibile per intendere una crescita economica che tenga conto dell’ambiente. Il che la fa suonare come cosa buona e desiderabile. Ma detta così l’affermazione è talmente generica che teoricamente potrebbe intendere scelte concrete anche molto diverse. In realtà bisogna andare all’origine del concetto per capire quale sia il fine vero.

Intanto, si deve dire che il concetto di sostenibilità è mutuato dalla biologia: lo si usa ad esempio negli anni ’50 del XX secolo nello studio dei tassi di riproduttività dei pesci per stabilire la sostenibilità della pesca. È quindi un classico esempio di traslazione di teorie scientifiche dal mondo animale al mondo umano secondo uno schema tipico della cultura riconducibile al darwinismo sociale, che tende a negare l’unicità della specie umana rispetto alle varie specie animali.

I primi tentativi di promuovere il concetto di sviluppo sostenibile applicato agli uomini sono negli anni ’70, ma la consacrazione vera e propria si ha con la Commissione Internazionale Onu su Ambiente e Sviluppo, detta anche Commissione Brundtland dal nome dell’ex premier norvegese Gro Harlem Brundtland che la presiedeva. La Commissione, istituita nel 1983 dall’allora segretario generale dell’Onu Perez de Cuellar, termina i suoi lavori con la pubblicazione nel 1987 del Rapporto intitolato “Our Common Future” (Il nostro futuro comune). Qui sviluppo sostenibile viene definito come «lo sviluppo che incontri i bisogni del presente, senza compromettere le possibilità per le future generazioni di incontrare i loro bisogni».

È una formula che potrebbe apparire di buon senso, ma il vero obiettivo di quel rapporto è dimostrare che la crescita della popolazione è la vera responsabile di sottosviluppo e degrado dell’ambiente. Citiamo ad esempio dal capitolo dedicato a “Popolazione e risorse umane”: «Ogni anno il numero di esseri umani aumenta, ma l’ammontare di risorse naturali con cui sostenere questa popolazione, e migliorare la qualità di vita nonché eliminare la povertà di massa, resta definita… Gli attuali tassi di crescita della popolazione non possono continuare. Essi già compromettono la capacità di molti governi di provvedere l’istruzione, i servizi sanitari e la sicurezza alimentare per la popolazione, per non parlare della possibilità di elevare il tenore di vita. Questa divisione tra numeri e risorse è oltretutto rafforzata dal fatto che la maggior parte della crescita della popolazione è concentrata in Paesi a basso reddito e in regioni ecologicamente svantaggiate”.

Su questa linea si svolgerà anche il Vertice sull’Ambiente a Rio de Janeiro nel 1992, richiesto proprio dalla Commissione Brundtland. Lì i capi di Stato e di governo di oltre 170 paesi firmano l’Agenda 21 (il riferimento è al 21mo secolo) e il Piano di Azione che si fondano su due obiettivi chiari: controllare le nascite nei paesi poveri, frenare lo sviluppo dei paesi ricchi. È proprio su queste due direttrici che si innestano tutte le politiche ambientali globali attuali, incluse quelle specificamente centrate sui cambiamenti climatici. Ad esempio, il numero 5.3 dell’Agenda 21 così recita: «La crescita della popolazione mondiale e la produzione combinata con livelli di consumo insostenibili mette sotto una dura e crescente pressione le capacità del nostro pianeta di sostenere la vita».

 

È per questa concezione negativa dell'uomo che la Chiesa ha fin dall’inizio respinto l’uso del concetto di sviluppo sostenibile. Basti pensare a un documento del 1994, pubblicato dal Pontificio Consiglio per la Famiglia, “Dimensioni etiche e pastorali delle tendenze demografiche”: «Secondo questa corrente di pensiero – afferma il documento al no. 24 -, il controllo delle nascite è la pre-condizione indispensabile per lo sviluppo sostenibile dei Paesi poveri.  Per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo dove i diversi fattori (cibo, salute, educazione, tecnologia, popolazione, ambiente, ecc.) sono armonizzati in modo da evitare una crescita sbilanciata e uno spreco di risorse. I Paesi sviluppati definiscono per gli altri quello che deve essere, dal loro punto di vista, sviluppo sostenibile. Questo spiega perché certi Paesi ricchi e importanti organizzazioni internazionali vogliono aiutare questi Paesi, ma a una sola condizione: che accettino programmi per il sistematico controllo delle nascite».

Con l’affermarsi universale del concetto di “sviluppo sostenibile” però, anche nella Chiesa si è fatta forte la pressione per adottare questa nozione, in chiave ecologista. Forti pressioni ci furono già durante il pontificato di Benedetto XVI, soprattutto da parte di alcuni episcopati europei, tedeschi in testa. L’occasione buona sembrava l’enciclica sociale Caritas in Veritate, ma alla fine il tentativo non ebbe successo: Benedetto XVI ripropose il concetto di “sviluppo umano integrale”. La distanza dello “sviluppo umano integrale” dallo “sviluppo sostenibile” la si apprezza già dai primi paragrafi dell’enciclica, in cui Benedetto XVI illustra come lo “sviluppo umano integrale” sia una “vocazione” (no.4) che nasce dal fatto che l’uomo è immagine e somiglianza di Dio.

Proprio per questo l’enciclica esalta la dignità e l’unicità dell’uomo, la sua centralità nel piano della Creazione, mentre – come abbiamo visto – l’idea dello “sviluppo sostenibile” veicola una concezione negativa dell’uomo stesso. E infatti Benedetto XVI denuncia chiaramente l’ideologia umanitaria  - dominante ad esempio nelle agenzie dell’ONU – perché “l’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano” (no.78). Mentre lo “sviluppo umano integrale” è “volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”  (no.18), lo “sviluppo sostenibile” è ciò che giustifica il sacrificio di una parte dell’umanità, come dimostrano le politiche di controllo delle nascite (no.28) che si basano sulla “scorretta” considerazione che “l’aumento della popolazione” sia “la principale causa del sottosviluppo” (no.44) .

 

Le cose sono però radicalmente cambiate con questo pontificato e il concetto di “sostenibilità” è parte integrante del magistero di papa Francesco: non solo ci si fa abbondante riferimento nell’enciclica Laudato Si’, ma convegni vaticani e discorsi sono a questo indirizzati, per non parlare di personaggi come l’economista Jeffrey Sachs, che sullo sviluppo sostenibile ci hanno costruito la carriera e che in Vaticano dettano legge.

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6. continua

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