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NAVA/ARTE E CULTURA

CARAVAGGIO:

CONTEMPLANDO CON GLI OCCHI E SENTENDO COL CUORE

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Formatosi in patria con il bergamasco Simone Peterzano, si trasferì a Roma nel 1592 dove iniziò lavorando con pittori come Antiveduto Grammatica e il Cavalier d’Arpino. 
Ammalatosi, fu ricoverato all’Ospedale della Consolazione: a questo periodo risalgono i celebri ritratti allo specchio tra cui il cosiddetto Bacchino malato (Galleria Borghese). Ottiene un grande successo dipingendo I bari per il cardinale fiorentino Francesco Maria del Monte, di cui diverrà un protetto. 
Negli anni sarà a libro paga anche del marchese Vincenzo Giustiniani, dei Barberini, dei Borghese, dei Costa, dei Massimo e dei Mattei.
Nel 1597 realizzò i tre capolavori per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi: la Vocazione, il Martirio di San Matteo e San Matteo e l’Angelo
Tra il 1600 e il 1601 la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. In entrambe le committenze dovette ridipingere una tela, perché rifiutate a causa della loro “irriverenza”, cosa che si ripeterà con la Morte della Vergine per Santa Maria della Scala e oggi al Louvre.
Nel 1606 in un duello uccide Ranuccio Tomassoni ed è costretto alla fuga che lo porterà a Napoli (dove dipinge le Sette opere di Misericordia e la Flagellazione), a Malta (dove realizza la Decollazione di San Giovanni Battista e il Ritratto di Alof de Wignacourt), a Messina (di questa fase sono il Seppellimento di Santa Lucia e la Resurrezione di Lazzaro), di nuovo a Napoli e poi, in attesa della grazia da parte di Paolo V Borghese, ottenuta grazie all’invio del celeberrimo David e Golia (Galleria Borghese), morì a Porto Ercole. 
Recentemente, nell’ossario della cittadina toscana, dopo un grande lavoro di ricerca, un gruppo di scienziati è riuscito a rinvenire i suoi resti.

LA FUGA IN EGITTO

Dipinto realizzato tra il 1595 ed il 1596. È conservato nella Galleria Doria Pamphilj di Roma. Il dipinto è un cosiddetto "quadro da stanza", cioè un'opera realizzata per essere posta a ornamento di una dimora privata.

 

C’è un fiaschetto, lì in basso, a sinistra. Avvolto nella corda, per proteggere il vetro dagli urti, durante il viaggio. E per tappo, un pezzo di stoffa ficcato nel collo della bottiglia, per non perdere neppure una goccia del contenuto.

Questo fiaschetto dice dell’andare, di un lungo cammino per luoghi di deserto, della preoccupazione della sete: un buon padre di famiglia deve pensare anche a questo… Ma la fuga sta ormai per concludersi. Dalla parte opposta, infatti, già si intravede dell’acqua: un fiume, un’oasi. La meta è raggiunta, ci si può infine riposare.

È sorprendente come siano spesso i dettagli, ad attirare l'attenzione. Anche, o soprattutto, in capolavori come il Riposo durante la fuga in Egitto del Caravaggio.

Tutto è pace, tutto è poesia in questo dipinto, dove il colore si fa melodia.

L’occhio nerissimo dell’asino ci scruta, complice e premuroso.

E ci si ritrova a trattenere il fiato, immobili, per non disturbare il sonno del Bambino Gesù e di sua madre, rapiti, noi, da una musica dolcissima che le nostre orecchie non odono, ma che fa vibrare la nostra anima di una gioia ineffabile. Come già dovette accadere ai pastori chiamati alla grotta di Betlemme, contemplando il Mistero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una famiglia che scappa

Betlemme ormai è lontana. Betlemme, la città illuminata dalla stella che aveva annunciato la nascita del Figlio di Dio, ora bagnata dal sangue innocente, straziata dalle urla di madri disperate. I Magi erano appena ri-partiti, quando un angelo apparve in sogno a Giuseppe, dicendogli: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finchè non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo» (Matteo 2, 13). E Giuseppe così aveva fatto. Senza indugio, ancora una volta ubbidiente.

Quello della fuga in Egitto è tema caro alla tradizione dell’arte cristiana. Racconta, come per esorcizzarla, della ferocia umana, la più terribile, la più vergognosa, quella di chi non esita a colpire degli esseri inermi e indifesi pur di proteggere il proprio potere e i propri interessi. Ma racconta soprattutto della nuova alleanza fra Dio e il suo popolo, attraverso il compimento delle antiche profezie.

Michelangelo, tuttavia, non propone qui la consueta immagine della Sacra Famiglia in fuga, ma, pur nella fedeltà al passo evangelico, ci mostra Giuseppe, Maria e il Bambino in un momento di sosta, seduti per terra, stanchi, possiamo immaginarlo, dal lungo viaggio.

Raffigurata sulla parte destra della tela, Maria, accovacciata, stringe al petto il Bambino, cullandolo, in un gesto di protezione e tenerezza. La sua guancia preme, più che sfiorare, sul capo del Bambino, come a voler trasmettere calore, e infinito affetto. Entrambi, madre e figlio, hanno gli occhi chiusi, come se si fossero appena assopiti: il braccio destro della Vergine, infatti, ricade inerte sulle ginocchia.

Giuseppe, la fiducia

Giuseppe, sull’altro lato del quadro, è ritratto come voleva la tradizione, cioè più maturo rispetto a Maria. Appare seduto su un sacco: le poche cose che è riuscito a raccogliere e a portare con sé in quella fuga precipitosa. I suoi piedi sono privi di calzari, probabilmente indolenziti dal molto camminare: con sorprendente realismo, Caravaggio ce li mostra uno sull’altro, come se Giuseppe non sapesse bene dove posarli, quei piedi nudi, perché il terreno è cosparso di pietre. O, ancora, come se l’uomo cercasse di massaggiarseli un poco, discretamente, mentre assorto osserva e ascolta l’angelo davanti a lui.

Noi lo vediamo di spalle, questo essere alato. In piedi, l’angelo si mostra in tutta la sua conturbante, incorruttibile bellezza, che non è androgina né effeminata, ma in verità sovraumana, asessuata, sintesi della sua divinità.  L’immagine sublimata della creazione stessa, in cui si fondono cielo e terra, sensualità e spiritualità.

Intento a suonare: fra le mani, infatti, tiene un violino e il suo archetto. Ma, cosa curiosa, l’angelo non sta eseguendo un motivo “a memoria”, né sembra improvvisare, ma legge le note su uno spartito che gli porge lo stesso Giuseppe…

Un uomo maturo, un discendente della tribù di David “ridotto” a fare da leggio, pur se ad un angelo? Dovrebbe sorprenderci quest’immagine, e invece intuiamo che non c’è proprio nulla di cui stupirsi… Giuseppe è colui che si è fidato. Di Dio, innanzitutto. Di quel suo angelo che l’ha visitato per dirgli di non avere paura nel prendere come sua sposa Maria «perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Matteo 1, 20-21). E ancora di quel messaggero divino che, in sogno, gli ha ordinato di fuggire per mettere in salvo il Bambino e sua madre. Sì, Giuseppe ha avuto fiducia. E continua ad averne. Seduto sul suo sacco, guarda l’angelo che suona davanti a lui, anche per lui, e forse ancora non sa decidersi se sta sognando a occhi aperti o se sta succedendo davvero, ma poco importa: lui la sua scelta l’ha già fatta, ha già deciso di affidarsi totalmente al Signore. E di servirlo. Umile e mansueto come il suo asino, che li ha portati fino a lì, in Egitto. Quell’asino che s’avvicina anch’esso come per ascoltare meglio la melodia, guancia a guancia con il suo padrone.

Un’annotazione, quest’ultima, che non ha soltanto un valore “pittoresco”, per così dire. La vicinanza fra l’uomo e l’animale, fra Giuseppe e l’asino, infatti, si può interpretare in questo contesto come un rinnovato modo di vivere il Creato da parte delle sue creature, alla luce di quella nuova alleanza realizzata sulla terra dalla nascita stessa di Cristo, il nuovo e ultimo Adamo.

Di fondamentale importanza è il fatto che Caravaggio pone questa figura angelica proprio al centro del quadro, come a dividere la scena in due ambiti ben precisi e quasi a “separare” i personaggi della Sacra Famiglia: da una parte, l’abbiamo visto, Giuseppe e l’asino; dall’altra, Maria e il Bambino. L’angelo, insomma, rappresenta qui il punto di intersezione fra la realtà materiale e quella spirituale, è il tramite fra il terreno e il divino, in una progressione che dal mondo animale sale all’uomo per arrivare, attraverso Maria (la beata fra le donne), fino al Dio incarnato, il Redentore. 

L'uomo nuovo

Per avere conferma di tutto questo, del resto, basta osservare con attenzione i differenti contesti in cui il pittore inserisce le sue figure. Il terreno su cui ancora poggia i piedi Giuseppe, infatti, l’abbiamo già notato, è brullo e petroso, privo d’erba e quindi, metaforicamente, sterile e desertico: vi si scorgono, con straordinario tocco realistico, persino le orme degli zoccoli dell’asino! Giuseppe è dunque il simbolo dell’umanità intera in cammino. Di quell’umanità che, cacciata dal giardino dell’Eden a causa del peccato originale, è costretta ad errare attraverso un «suolo maledetto», come si legge nel libro del Genesi. Ed è dunque l’emblema, la memoria stessa del popolo d’Israele che vaga nel deserto in attesa di poter raggiungere la Terra promessa…

Ben diverso, invece, è l’ambiente in cui sono inseriti Maria e il Bambino. Attorno a loro, infatti, si vede il fiorire di una natura generosa, lussureggiante, persino. Sì, è questo il nuovo Eden, sono questi i cieli nuovi e la terra nuova che sono stati promessi all’umanità finalmente redenta, e che l’angelo annuncia con la sua musica.

Ma che “tipo” di musica sta suonando l’angelo? Inizialmente, gli studiosi, avevano pensato a una generica “ninna-nanna”, dolce e suadente, capace di ricreare quell’atmosfera di ammaliante serenità che pervade ogni cosa. Questo fino a quando quelle note non sono state esattamente individuate, invece, in uno specifico mottetto, quello composto attorno al 1520 da Noël Bauldewijn, che mette in musica proprio il testo biblico del Cantico dei cantici, e precisamente le parole del capitolo settimo, a partire dal settimo versetto: «Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie!».

Una dichiarazione d’amore lirica e appassionata, insomma, che l’amato rivolge alla sua amata. Come del resto avviene in tutto il Cantico stesso, un vibrante dialogo fra lo sposo e la sposa che diventa un inno all’amore di straordinaria intensità e di ineguagliata poesia.

E in questo dipinto, effettivamente, noi abbiamo due sposi, cosicché lo stesso Giuseppe sembra fare omaggio di quei versi proprio a Maria. Come una romantica, mistica “serenata”, insomma, che dolcemente accompagna il riposo della sposa, Maria…

Se il Cantico dei cantici, poi, esprime tutta l’intensità sponsale tra Dio e il suo popolo, nella tradizione patristica esso viene letto anche con riferimento allegorico a Cristo, lo Sposo, e la sua Chiesa, la Sposa, di cui la Vergine è come l’incarnazione e l’emblema più alto. Non a caso, infatti, proprio questi versetti erano entrati a far parte della liturgiche in onore della Madonna.

Ecco allora che questa musica – davvero sacra, liturgica perfino – diventa essa stessa una lode alla Vergine, che è simbolo della Chiesa vivente, tabernacolo del Signore, come ce la mostra chiaramente Caravaggio, in quell’abbraccio teso ad avvolgere e a custodire Gesù, suo figlio, redentore dell’intera umanità.

Allo stesso modo, le lodi che lo sposo rivolge alla sposa si adattano perfettamente alla raffigurazione di Maria, soprattutto là dove si dice che «il tuo collo è come una torre d’avorio» e che «la chioma del tuo capo è come la porpora»: eburneo, luminosamente candido, infatti, è il collo della Madonna dipinto dal Merisi; e rossi sono proprio i suoi capelli!

Un giorno nuovo

È l’alba di un nuovo giorno.

Tutta la notte la Sacra Famiglia ha viaggiato per fuggire dalla furia omicida di Erode, ma ora la salvezza è vicina. Più vicina di quanto si possa immaginare.

Il fiaschetto di Giuseppe non serve più.

Adesso ci si può dissetare direttamente alla fonte viva, a quella inesauribile sorgente di vita che è Cristo. La fuga è finita, la nostra sete è placata. Per sempre. "Tu, fonte viva: chi ha sete beva! Fratello buono, che rinfranchi il passo: nessuno è solo se tu lo sorreggi, grande Signore!".

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LA FUGA IN EGITTO
IL SACRIFICIO DI ISACCO

IL SACRIFICIO DI ISACCO E IL CORAGGIO DELLA FIDUCIA

Michelangelo Merisi, Il sacrificio di Isacco, Firenze - Galleria degli Uffizi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!»  (Gen 22, 1).

E' il cardinale Barberini, committente del dipinto, ora agli Uffizi, in cui Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, mise in scena ciò che accadde dopo quell’«Eccomi!» pronunciato da Abramo a Dio che gli chiedeva di sacrificare l’unico figlio.

Era appena iniziato un nuovo secolo, il XVII, e il Merisi, da qualche anno a Roma, aveva già fatto parlare di sé. Per questo importante ingaggio interpretò il soggetto, suggeritogli dal Barberini, mantenendosi fedele all’iconografia tradizionale che la pittura moderna cinquecentesca aveva ereditato dall’immaginario paleocristiano.

Abramo è ritratto nell’attimo in cui un angelo blocca la mano che impugna il coltello. Il suo sguardo severo è sorpreso dall’intervento divino: la fronte si aggrotta ma il gesto, pur sospeso, rimane deciso, segno dell’obbedienza totale alla richiesta di Dio.

Il dramma si consuma in questo preciso istante ed è pienamente espresso nell’urlo disperato di Isacco, riverso sull’ara sacrificale, stretto nella morsa del padre. La luce, imprescindibile ingrediente dell’alchimia caravaggesca, colpisce i punti cruciali: la mano dell’angelo, la fronte di Abramo, il viso terrorizzato di Isacco. E raggiunge, soffusa, lo sfondo su cui compare un paesaggio, elemento, viceversa, atipico per il maestro lombardo, identificato dai critici in un luogo ben preciso, Castel San Pietro Sabino, immerso nella campagna romana e feudo di una potente famiglia di committenti del pittore. Il complesso che vi si scorge sembrerebbe una chiesa con annesso battistero, alludendo, così, alla nascita della Chiesa, illuminata dalla grazia di Dio, qui interpretata, come pur sosteneva Agostino d'Ippona, dalla luna.

La Chiesa, infatti, nasce dal sacrificio di Cristo sulla croce, di cui quello di Isacco è prefigurazione. Al posto del figlio, si sa, Abramo immolò l’ariete che l’angelo, nella tela caravaggesca, gli indica con altrettanta decisione, mentre l’animale resta impigliato con le corna in un cespuglio.

Il rosso acceso della veste che cinge i fianchi di Abramo è il colore che Caravaggio sempre usa per dare forza alle sue figure. E in questo caso ci suggerisce di guardare ad Abramo uomo del coraggio della fiducia, dove Dio, per questo suo coraggio, lo ha ricompensato con una discendenza numerosa “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”

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