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NAVA/ANNIVERSARIO
150 ANNI DI FALSITA' SU PORTA PIA E IL RISORGIMENTO
Il 20 settembre segnerà i 150 anni della presa di Roma da parte dell'esercito sabaudo e il completamento dell'unificazione d'Italia. È la storia di una vittoria del potere liberal-massone e anti-cattolico.
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“Fra gli inni di libertà,
e gli augurii di fratellanza erano violati
i domicilii, violate le proprietà;
qual cittadino nella persona,
qual era nella roba offeso,
e le requisizioni dei metalli preziosi
divenivano esca a ladronecci,
e pretesto a rapinerie”.
Luigi Carlo Farini
di Angela Pellicciari
Oramai tanto tempo fa, ventidue anni per l’esattezza, pubblicavo Risorgimento da riscrivere, un testo che ha curiosamente avuto molto successo. Curiosamente è l’avverbio esatto. E non perché ritenga che i libri che ho scritto non siano documentati, seri, e quindi meritevoli di attenzione. Ma perché, vivendo in una società pervasa fin nei suoi più piccoli meandri dalle soffocanti maglie del pensiero liberal-massonico, era semplicemente impossibile che un libro sui “fatti” del risorgimento avesse successo.
D’altronde la sua stessa pubblicazione ha avuto del miracoloso: dopo aver bussato a tutte le porte, c’è voluto l’intervento di Padre Pio perché alla fine l’Ares si decidesse a pubblicare quello che è stato uno dei suoi più riusciti best seller.
Lo spiraglio che si è aperto per qualche tempo una ventina di anni fa, si è nel frattempo meticolosamente richiuso e le notizie che ho raccontato in tanti libri, oggi sono in pochi a ricordarsele. E’ la vita. Lo stesso Meeting di Rimini, che tanta risonanza ha dato ai miei libri sul risorgimento, da qualche anno non solo ha taciuto ma si è accodato alla versione di sempre. Quella ribadita dallo stesso presidente della Repubblica Napolitano, accolto con molta benevolenza dai vertici del Meeting.
150 anni dalla presa di Roma? Sotto la presidenza Napolitano, all’epoca di Alemanno sindaco, sono stati restaurati sul Gianicolo i tanti busti dei protagonisti della repubblica romana del 1849. Cosa si celebra in quell’evento? L’aver messo la parola fine al potere temporale dei papi. Detto in altri termini, l’aver creduto di aver ucciso la religione cattolica: “Roma, la santa, l’Eterna Roma, ha parlato”, scrive Mazzini in Per la proclamazione della Repubblica Romana. Cosa avrebbe detto Roma? “Roma non è dei Romani: Roma è dell’Italia: Roma è nostra perché noi siamo suoi. Roma è del Dovere, della Missione, dell’Avvenire”. E quelli che non sono d’accordo? “I Romani che non lo intendono non sono degni del nome”.
La libertà portata ai romani da Mazzini e dai carbonari è descritta da Pio IX nell’enciclica Quibus quantisque malorum compsta durante l’esilio di Gaeta, ma è anche raccontata dal futuro primo ministro Luigi Carlo Farini ne Lo stato romano dall’anno 1814 al 1850: “Fra gli inni di libertà, e gli augurii di fratellanza erano violati i domicilii, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie”.
Se questo è stato l’inizio, il 20 settembre 1870 i massoni hanno continuato l’opera in piena e totale libertà.
Se siamo ancora vivi è perché Pio IX e tutto il popolo cristiano hanno obbedito al Vangelo e hanno alla lettera dato l’altra guancia.
APPROFONDIMENTI
CONSIGLI PER LA LETTURA SULL'ARGOMENTO
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Angela Pellicciari
RISORGIMENTO
DA RISCRIVERE
Ed. Ares
L'unificazione d'Italia, dal 1848 al '61, si svolge contestualmente a una vera e propria guerra di religione, condotta dal Parlamento di Torino contro la Chiesa cattolica. Perché? Un quadro del Risorgimento a tinte forti quanto inaspettate.
TUTTI I NUMERI DI UN DISASTRO
L’unità d’Italia è stata realizzata dai Savoia in nome della monarchia costituzionale e dello stato liberale.
E’ successo l’esatto contrario: sono stati violati tutti i principali articoli dello Statuto, a cominciare dal primo che definisce la chiesa apostolica, cattolica, romana, unica religione di stato:
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sono stati soppressi tutti gli ordini religiosi: a 57.492 persone è stata negata la possibilità di vivere come liberamente avevano scelto di fare;
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sono stati derubati tutti i beni degli ordini religiosi (chiese, conventi, terreni, compresi archivi, biblioteche, oggetti d’arte e di culto, paramenti);
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al momento dell’unificazione più di cento diocesi sono state lasciate senza vescovo;
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non c’è stata nessuna libertà di istruzione;
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non c’è stata nessuna libertà di stampa (è stata persino proibita la pubblicazione delle encicliche del papa);
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è stato infranto il principio della inviolabilità della proprietà privata;
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in nome dell’ordine morale che aveva visto la luce i preti sono stati obbligati a cantare il Te Deum e a dare i sacramenti agli scomunicati liberali. Chi non ha ubbidito è incorso in multe pesanti ed è stato condannato a 2 o 3 anni di carcere (questo stabiliva il codice di diritto penale approvato nel 1859 nell’imminenza dell’invasione);
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qualche anno dopo l’unificazione sono state soppresse anche le 24.000 opere pie.
Conseguenze
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per giustificare la violenza contro lo stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie è stata imposta una storiografia radicalmente falsa;
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è trionfato l’odio per la religione cattolica;
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è trionfato il disprezzo per la nostra storia e per la nostra identità (tuttora imperante);
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l’1% circa della popolazione di fede liberale ha realizzato un bottino ingente alle spalle dei beni della Chiesa, cioè di tutta la popolazione;
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enorme è stata la distruzione del patrimonio artistico e culturale;
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il bilancio dello stato è risultato fuori controllo (all’opposto delle abitudini virtuose degli stati preesistenti);
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è stata imposta una tassazione elevatissima per l’epoca;
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c’è stato l’impoverimento delle fasce più povere della popolazione;
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all’Italia liberale è spettato il primato della popolazione carceraria: 72.450 detenuti (il rapporto carceratiabitanti è di 138 ogni 100.000 persone in Francia, di 107 in Inghilterra, di 63 in Belgio, di 270 in Italia);
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è stata realizzata una grande concentrazione della proprietà fondiaria che è aumentata del 20% nei primi venti anni dopo l’unificazione;
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per la prima volta nella sua storia l’Italia è stata ridotta a colonia (economica, culturale, religiosa);
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per la prima volta nella sua storia il popolo italiano è stato costretto ad un’emigrazione di massa.
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PORTA PIA: DOPO 150 ANNI ANCORA IRRISOLTO IL NODO CHIESA-STATO
di Stefano Fontana
Lo Stato che ha occupato Roma il 20 settembre 1870 è lo Stato liberale moderno che ha reciso i legami con il diritto naturale e con quello divino come fonti di legittimazione. Esso nasce da un atto di forza, quindi non ha legittimità, la quale è sempre un fatto morale: è legittimo ciò che rispetta l’ordine naturale e finalistico delle cose, è violenza illegittima ciò che non lo rispetta, avesse anche il suffragio della maggioranza. Una questione su cui anche la Chiesa evita di fare chiarezza.
La questione della presa di Roma del 20 settembre 1870 non va archiviata, nemmeno nella sua versione di fatto provvidenziale che avrebbe finalmente liberato la Chiesa dalla zavorra del potere temporale. Va esaminata in tutti i suoi aspetti che, tuttavia, non sono solo storici, ma anche di principio, diremmo teoretici.
Essa poneva allora e pone anche oggi il problema della legittimità dello Stato. Pio IX scomunicò allora lo Stato italiano e re Vittorio Emanuele II e con ciò ribadì i corretti criteri per considerare uno Stato come legittimo, a cominciare dal criterio più combattuto e tenacemente negato allora e ora, ossia che a dare questa ultima legittimazione (o toglierla come nel caso di Porta Pia) spetti alla Chiesa. La posizione assunta da Pio IX presenta anche altri aspetti, ma questo mi sembra quello fondamentale e di grande attualità, perché scorrendo il tempo non sembra che esso sia stato risolto, anzi la questione della legittimità dello Stato è stata abbandonata e quasi non ce la si pone più: gli Stati ci sono e il solo fatto che ci sono anche li legittima.
Lo statuto (la costituzione diremmo oggi) dello Stato italiano proclamato nel 1861 conteneva ancora il riferimento a Dio e considerava il Re d’Italia essere tale per volontà di Dio. Questa dizione era stata ripresa dallo Statuto del Regno di Savoia in seguito esteso a quasi tutta la penisola. Però si sa che quella espressione statutaria era ormai lettera morta, perché sia lo Stato piemontese prima sia lo Stato italiano poi si ispiravano, come tutti gli Stati liberali dell’Ottocento, al modello dello Stato napoleonico. Questo tipo di Stato – Uomo-animale-macchina-Dio come diceva Hobbes – che vuole ridurre a se stesso l’intera società uniformandola alle proprie esigenze, esclude il problema stesso della legittimità, facendola coincidere con il proprio atto di volontà.
Lo Stato che ha occupato Roma il 20 settembre 1870 è lo Stato liberale moderno che ha reciso i legami con il diritto naturale e, ancor più, con il diritto divino come fonti ultime di legittimazione. Non che abbia cercato altrove altri criteri di legittimazione, ha proprio eliminato il problema: lo Stato nasce da un atto di forza, sia esso espresso da una Volontà generale (Rousseau) oppure da un Leviatano (Hobbes). Quindi non ha legittimità, perché un atto di forza non può avere legittimità morale, e nemmeno la cerca: la sua legittimità consiste nell’effettualità, ossia nell’imporla.
Quindi, seppure lo statuto facesse riferimento esplicito ad una legittimazione che derivava dal diritto naturale e divino, lo Stato piemontese e italiano manteneva quelle affermazioni per convenienza di immagine, ma le aveva svuotate di ogni senso. La politica cavouriana e poi dei governi italiani rispetto al matrimonio e alla famiglia, la distruzione ope legis degli ordini religiosi, le mani poste sull’educazione dei futuri cittadini, l’imposizione di una religione civile atea e ispirata al materialismo positivista tolgono ogni dubbio in merito. Tutto ciò era stato contestato da Gregorio XVI e Pio IX sul piano dottrinale, dopo la breccia di Porta Pia si passò all’atto della scomunica dello Stato con l’invito ai cattolici di considerarlo estraneo a sé. Estraneo perché delegittimato, quindi illegittimo.
Ci si può chiedere: la Repubblica italiana di oggi è uno Stato legittimo? E la Francia atea e anticlericale? E l’Olanda con le sue leggi disumane? O la Germania che Peter Hahne diceva essere ormai un grande bordello? Oggi nessuno mette più in discussone se questi (ed altri) Stati siano legittimi. Il tema è stato accantonato, ma ricordare Porta Pia e l’enciclica Rescipientes di Pio IX del 1 novembre 1870 lo fanno riemergere. A stretto rigore dovremmo dire che nessuno Stato attuale è legittimo?
Normalmente oggi si ritiene che a legittimare lo Stato sia il voto popolare. Soprattutto il voto popolare espresso in fase costituente. Ma il voto popolare non legittima niente perché è una pura conta quantitativa di opinioni immotivate. Anche il voto popolare chiede di essere legittimato, perché è solo un modo per prendere decisioni e non il loro fondamento. La legittimazione è sempre un fatto morale, è legittimo ciò che rispetta l’ordine naturale e finalistico delle cose, è violenza illegittima ciò che non lo rispetta, avesse anche il suffragio della maggioranza. La costituzione italiana non è legittimata perché approvata a maggioranza da una assemblea e poi da un referendum, è il contrario. Se il voto dovesse legittimare una costituzione che non rispetta il diritto naturale sarebbe esso – il voto – a venire delegittimato. Tra l’altro la presa di Roma del 1870 non fu nemmeno decisa in questa forma, quindi non ha nemmeno la scusa del formalismo procedurale democratico.
Sono passati 150 anni dalla Breccia di Porta Pia. La Chiesa per prima ha perduto la memoria a questo proposito. Ma come può oggi la Chiesa parlare in ambito pubblico senza avere le idee chiare su cosa legittima il potere politico? E se il problema della legittimità viene risolto tramite l’effettualità (è legittimo quanto si impone di fatto) crolla tutto l’assetto della società giusta, in ogni aspetto della vita comunitaria e parlare di bene comune diventa impossibile.
Giacomo Biffi
L'UNITA' D'ITALIA
Ed. Cantagalli
Un italiano d'eccezione offre il suo contributo personale al controverso e multiforme dibattito sul Risorgimento.
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell'Italia unita, il cardinale Giacomo Biffi rivolge il suo inconfondibile sguardo ai fatti "provvidenziali" che guidarono il nostro paese verso l'unità nazionale, senza trascurare le contraddizioni, i limiti e gli effetti a lungo termine dell'opera dei costruttori del nuovo Stato.
I SOLDATI DELLO STATO PONTIFICIO AMMIRATI DAI NEMICI
di Andrea Cionci
Il Corpo degli Zuavi era costituito dai soldati dello Stato pontificio: “Il loro volontariato mistico, contrapposto al laicismo dei garibaldini...contribuì a ritardare l’annessione dello Stato della Chiesa al resto d’Italia in quanto erano uno dei reparti più motivati dell’armata papale: furono oggetto di giudizi carichi d’odio, quanto di cavalleresca stima. Lo stesso Mazzini riconosceva il loro valore".
“Dal ponte S. Angelo ci fu dato di vedere degli zuavi che lavoravano di carriola e di vanga allegramente lungo le sponde del Tevere. Forse erano tutti figli di famiglie civili, persone istruite e dabbene, forse erano laureati professori, conti duchi, baroni e lasciavan la patria e gli agi di casa propria per venire qui a fare il manovale, il bracciante! Bisogna proprio dire che la fede fa miracoli!”. Sono parole del garibaldino Pio Vittorio Ferrari che descrivono i soldati del reparto di élite di Pio IX impegnati nel 1867 in opere di fortificazione di Roma quando Garibaldi si spinse, nell’ottobre di quell’anno, alle porte della Città eterna.
Di loro oggi si è perso il ricordo tranne che per un’espressione del linguaggio comune: “Pantaloni alla zuava”. In effetti, erano fortemente caratteristici i calzoni a sbuffo della loro uniforme grigia. Per il resto, la propaganda anticlericale post-unitaria ha fatto tabula rasa del loro sacrificio. In un panorama di modesta attenzione mediatica riservata al 150°della Presa di Porta Pia che ricorre domenica 20 settembre, l’Esercito italiano ha tributato agli Zuavi pontifici “l’onore delle armi” (come già fece all’epoca) riservando loro uno spazio adeguato sul fascicolo storico della Rivista Militare di settembre interamente dedicato all’anniversario. Accanto ai capitoli sui bersaglieri, l’Artiglieria, i comandanti e gli armamenti italiani, si trovano, infatti, quasi altrettanti capitoli dedicati al nemico.
Apprendiamo così come l’esercito papalino fosse costituito da un reggimento di fanteria, uno di carabinieri stranieri, un battaglione di cacciatori, un reggimento dragoni, un reggimento di artiglieria, la gendarmeria e i volontari pontifici. L’élite era però considerata il Corpo degli Zuavi, che, nel decennio 1860–70, rapparesentarono “il baluardo del Trono e dell’Altare”: “Il loro volontariato mistico, contrapposto al laicismo dei garibaldini e alla fede monarchica delle truppe piemontesi, contribuì a ritardare di alcuni anni l’annessione dello Stato della Chiesa al resto d’Italia in quanto erano uno dei reparti più motivati e meglio addestrati dell’armata papale. Per questo furono oggetto tanto di giudizi carichi d’odio, quanto di cavalleresca stima. Lo stesso Mazzini, pur essendo loro acerrimo nemico, riconosceva il valore di chi combatteva volontariamente per i propri ideali. Provenivano da 25 diverse nazioni: moltissimi erano olandesi, francesi e belgi, ma vi si arruolarono anche svizzeri, tedeschi, italiani, canadesi e perfino americani. Poco prima della presa di Roma raggiungevano le 3.200 unità. Spesso di estrazione aristocratica, o comunque generalmente di buona nascita, vedevano nel servizio volontario in difesa del Papa una sorta di nona crociata”.
Nel ricco volume “Per il Papa Re” di Lorenzo Innocenti (Esperia ed.) sono raccolte molte belle fotografie di questi soldati dalle uniformi grigie e dai baffi fieri quanto i loro nomi, affollati di predicati. Se non meraviglia che il loro comandante fosse il Tenente Colonnello Barone Athanase-Charles-Marie de Charette de la Contrie, colpisce vedere associato un titolo nobiliare a gradi da sottufficiale, come per il “Sergente Conte François Xavier von Korff Schimising-Kennebrock”.
Nonostante la loro nascita, erano infatti soldati disciplinatissimi, abituati alla frugalità e i loro ufficiali dovevano provvedere personalmente al proprio equipaggiamento. Alcune belle foto d’epoca li mostrano impegnati in esercitazioni o nella costruzione di accampamenti. Soprattutto, erano molto motivati, come si evince dal testo di una loro canzone di guerra. «Oh, com’è bella la morte per la Fede degli Avi; oh, quale sorte perir con l’armi in pugno pei patrii monti e le valli natie, da estranei fanti e cavalli calpestati».
Erano dotati di armi lunghe assai moderne. Dopo due anni di indagini all’estero, il Generale Hermann Kanzler, proministro delle Armi pontificio, fece adottare nel 1868, con scelta oculata, un’arma già nata a retrocarica, il Remington Rolling Block, in calibro 12,7 mm, un avanzato fucile monocolpo, con bossolo metallico, che ebbe notevole diffusione presso gli eserciti occidentali. Con la presa di Porta Pia e la cattura di queste armi, lo Stato Italiano le riciclò prontamente riconoscendone la superiorità tecnologica e dandole in dotazione ai Bersaglieri.
Gli Zuavi avrebbero venduto molto cara la pelle se non fosse stato per gli espliciti ordini di Pio IX. La Rivista Militare cita infatti una mitragliatrice che non fu mai usata: “Fonti documentate, riferiscono di una Claxton in calibro .690, di fabbricazione americana, progettata alla fine della Guerra di Secessione per l’Esercito nordista e commercializzata successivamente in Francia. Pronta all’uso, non venne impiegata probabilmente per gli ordini ricevuti dal de Charette direttamente dal Papa. La resistenza dei pontifici avrebbe dovuto essere infatti simbolica quel tanto da significare al mondo come Roma fosse stata conquistata con un atto di guerra. Un bagno di sangue prodotto dall’uso della mitragliatrice non avrebbe giovato all’immagine del Regno d’Italia né del Papa che, opponendo una resistenza così accanita, per quanto legittima, avrebbe permesso un massacro nella culla della Cristianità”.
Una volta firmata la resa, gli Zuavi pontifici abbandonarono la Città Eterna – immaginiamo con quali sentimenti di frustrazione - sfilando fra i soldati italiani schierati e molti di loro ritornarono presto a combattere in Francia contro i Prussiani, dove a volte, paradossalmente, si trovarono fianco a fianco proprio con ex garibaldini. Presso il Pincetto Vecchio del cimitero del Verano sorge un elegante monumento che ricorda, insieme a loro, tutti i caduti pontifici. Chissà se qualcuno porterà una corona di fiori per questi “ultimi crociati”.
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IL RISORGIMENTO SECONDO BIFFI: LO STATO IGNORO' LA NAZIONE
di Aurelio Porfiri
Con l'unità d'Italia iniziò a circolare l’idea che non è Dio, ma l’uomo, a fare le leggi del mondo e il sacro subì un’eclissi. L'errore, per il cardinale Giacomo Biffi, non fu la fine del potere temporale della Chiesa ma che l'eredità cattolica, vero collante della nazione italiana, non solo non fu considerata dai responsabili del nuovo Stato ma fu avversata.
Il 20 settembre 2020, ricorrono i 150 dalla breccia di Porta Pia, l’entrata dei “piemontesi” (come venivano chiamati) nella città eterna, uno degli episodi cardine della nostra storia recente. La presa di Roma fu in un certo senso il culmine del processo risorgimentale, un processo che ha poi portato alla nascita dell’Italia come la conosciamo oggi.
Il Risorgimento fu fenomeno complesso e uno sguardo molto attento su di esso lo ebbe il Cardinale Giacomo Biffi (1928-2015), già arcivescovo di Bologna e figura importantissima del cattolicesimo del ventesimo secolo. Il cardinale Biffi si occupò spesso del tema del Risorgimento e del tema della nazione Italia, un tema che evidentemente gli stava particolarmente a cuore. Qui ci interessa specialmente un ampio saggio contenuto nel volume Pinocchio, Peppone, l’anticristo e altre divagazioni (Cantagalli). Il saggio si chiama Risorgimento, identità nazionale e stato laico ovvero Uno “stato” a spesa di una “nazione”. Già dal titolo si capisce molto.
Saltando e sintetizzando, si può dire che il cardinale affermi che l’Italia aveva mostrato una grande vitalità artistica, culturale, sociale almeno fino al settecento ma poi entrò in un periodo di grande crisi. Già Roger Scruton nel suo "Essere conservatore" aveva identificato nel XVII secolo come uno snodo fondamentale per capire l’evoluzione storica recente: “Nel XVII secolo, quando la religione organizzata e la regalità cerimoniale persero la loro presa sulla mentalità della gente, quando lo spirito democratico mise in discussione il retaggio istituzionale e quando iniziò a circolare l’idea che non è Dio, ma l’uomo, a fare le leggi del mondo dell’uomo, l’idea del sacro subì un’eclissi”. Quel secolo fu una fine e un inizio, o un inizio della fine. Lo stesso Biffi afferma: “Come si vede, proprio dal momento che, con un governo "italiano", con un parlamento "italiano", con un esercito "italiano", siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno“. Egli in pratica afferma che l’unificazione nazionale ha coinciso anche con un momento di grande crisi della nostra nazione, l’unificazione non ha portato ad una creatività ma soltanto ad evidenziare una crisi già in corso.
Il cardinale però imputa una grave colpa: “L'errore più grave però è stato quello di aver sottovalutato il radicamento nell'animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consostanzialità con l'identità nazionale". Questo anche perché, come sappiamo bene, il Risorgimento ebbe una connotazione fortemente anticattolica, fu orchestrato da forze e poteri che avevano tutto l’interesse nel danneggiare il cattolicesimo e la sua presenza nell’animo degli italiani.
C’è stata anche una incomprensione della differenza fra nazione e Stato. La nazione e tutto ciò che lega culturalmente, storicamente, quasi antropologicamente certe persone, mentre lo Stato è una istituzione politica di governo. In questo senso, la nazione italiana è ovviamente fortemente impregnata della sua eredità cattolica e questo non solo non è stato considerato dai responsabili del nuovo Stato ma è stato anche avversato, andando contro la vera essenza di quelle popolazioni che si voleva governare: “Ridurre concettualmente la nazione italiana entro l'idea di quello Stato, che da nemmeno un secolo e mezzo costituisce, per così dire, il suo rivestimento politico, è un equivoco più o meno consapevole che potrebbe poi determinare inconvenienti non da poco nel modo di concepire la nostra vita associata“. Non bisogna dimenticare, ci dice il cardinale, che istituzioni come università, ospedali, associazioni varie di assistenza, nascono in conseguenza della nostra eredità cattolica. Quindi non si può essere “culturalmente italiani“ se non si tiene conto di quella eredità.
Il cardinale non ha uno sguardo nostalgico verso la situazione politica precedente al Risorgimento, anzi lui anche mette in luce quali sono stati i guadagni che sono venuti dal tempo risorgimentale. Uno di questi è la fine del potere temporale: “Il terzo "guadagno" rallegra in modo speciale i veri credenti ed è la scomparsa del "potere temporale" pontificio, che nessun cattolico si sogna più di rimpiangere". Questo punto è stato del resto messo in luce anche da alcuni pontefici della storia recente.
Il cardinale chiama a una riflessione sul modo in cui la nazione è stata considerata nella nascita del nuovo Stato, uno Stato in cui per rispetto delle minoranze si mettono in discussione i diritti della maggioranza. Il cardinale osserva anche alla fine del suo saggio: “Noi non contestiamo affatto lo "Stato unitario", né ci auguriamo il suo svigorimento o la sua frantumazione. Chiediamo però che lo "Stato" lasci vivere e respirare di più la "nazione", in tutte le diverse realtà che la compongono; e anzi, in virtù del "principio di sussidiarietà", l'aiuti efficacemente a vivere e a crescere in tutta la sua multiforme ricchezza. La seconda distinzione indispensabile è quella tra la "laicità dello Stato" (che deve garantire la libertà effettiva di tutti i singoli e di tutte le aggregazioni, ed è incompatibile con ogni confessionalismo religioso o ideologico) e la cultura laicista, che è appunto una delle possibili, ma certo non doverose, opzioni ideologiche".
La riflessione di questo grande cardinale, una riflessione pacata e non ideologica, andrebbe posta ancora al centro di tutte le considerazioni che si fanno sulla nostra storia recente, una storia che ancora sembra non aver identificato un vero punto di svolta.
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