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LUIGI PIRANDELLO

La chimera dell'illusione

Distrutte le più nobili ragioni di vivere, è possibile vivere ancora? Se ogni realtà è vana, bisogna cercare dentro di noi il sostegno, bisogna crearselo nella mente, se nel mondo non c'è. Così ci spiegano i drammi di Maeterlink, di William Butler Yeats e di Pirandello.

Ma Pirandello ha questo di suo, di morbosamente suo: ha spinto il pensiero oltre ogni controllo dell'esperienza, e dà per realtà provata e inconfutabile le ultime conclusioni della sua fantasia. Per lui non c'è nessuna differenza tra pensare e fare, tra sognare e vivere, tra recitare a teatro la propria parte, e recitare nella vita di tutti i giorni. 

Le nostre idee non si formano, guardando la natura, ma è la natura che si forma, scimmiottando i nostri pensieri.

Si capisce allora la battuta di salò in Trovarsi (1932): "Ah già! tu sei quello dell'esperienza, me ne scordavo - dice Salò, cioè Pirandello, all'amico Volpes, nel I atto - che per sapere, bisogna prima provare. Io so, invece, che ho provato sempre soltanto ciò che m'ero prima immaginato".

Agrigento, 28 giugno 1867 –

Roma, 10 dicembre 1936

La vita più vera - l'unica vera - ste, dunque, nell'immaginazione. Quando qualcuno riesce fortemente ad immagina qualcosa, egli l'ha vissuta. Sperimentarla praticamente è sciocco, poiché o il fatto risposnde all'idea formata prima (e allora non presenta niente di nuovo), oppure è tutto diverso (e allora, non si capisce più niente, non potendo nessuno capire quello che non ha mai pensato). Dunque per vivere bisogna crearsi la propria vita. "E questo è vero... E non è vero niente. .. Vero è soltanto che bisogna crearsi e creare! E allora soltanto, ci si trova". (Così termina Trovarsi).

Chi non approfondisce questo pensiero pirandelliano ne esce sbigottito senza capire nulla. Pirandello si è fabbricato un castello tutto suo su una montagna solitaria. Ma come salire su questa montagna e entrare in questo castello, se la strada non si trova se non dormendo?

Spiegarci come Pirandello sia arrivato a questa sua concezione della vita non è difficile. che stupidaggine la vita come la concepiscono gli uomini. e' una vanità rivestita di coperte e fiori di ogni colore, che la gente chiama famiglia, patria, religione, altruismo, coscienza... E' tutta fatta di carità pelose, di successi usurpati, di ingiustizie legali, di consuetudini ipocrite; la vita è tutta vittima della forza cieca del Caso, che rivolge e sconvolge senza ragione gli uomini. 

Soffocato da questa visione pessimistica, il primo Pirandello - quello della poesia, delle novelle e dei primi drammi - cominciò a ribellarsi e a insegnare una morale più aperta: il volo delle aquile alle galline, sembrò dire, e pareva così immorale.

E non hanno torto le galline che tali sono, perciò rimangano nel vecchio conformismo. Noi aquile ci costruiremo in libertà regole migliori delle loro.
Esemplificare e diflicile, perché i suoi argomenti, anche girati e visti di scorcio, non abbandonano le scabrosità morali in cui furono pensati.
Una novella, che poi fu sceneggiata, s’intitola Superior stabat murus: un medico viene meno ai doveri di padre, abbandona una figlia unica, e fugge in America rifacendosi una nuova vita. Ma dopo anni, ritorna in Europa, ricco e voglioso di ritrovare la figlia abbandonata.
Ella era cresciuta sotto la cura di parenti, i quali per avarizia l’avevano sposata a un uomo vecchio e non amato.
Quando il padre la rivede, si accorge di tanta infelicità, e riconosce che la responsabilità pesava su di lui. Egli, così, doveva rimediare l’ingiustizia... comprese in quel momento il suo dovere e si fece coraggio; e uccise il genero.
"Sei libera... e puoi vivere ora", dice il padre alla figlia; e la figlia che ha intuito quanto è successo, sente che le sarebbe stato possibile approfittarne solo a un patto: di non saperlo. "Ma ella sentì che non poteva più — ora — sapendo", scrive Pirandello.
In lei, cioè, avveniva il conflitto tra la vecchia morale di Dio e la nuova propagandata da Piranclello.
Ma Pirandello non s’arrestò su questa strada. Persa ogni fede in una realtà oggettiva, tentato invano il rimedio di una morale più libera e d’aquila, non gli restava altro che rifugiarsi nel più assurdo soggettivismo: se questo mondo è brutto, facciamone noi uno migliore. E lo fece: la vera realtà è quella che ci forgiamo con la nostra fantasia.
Di qui il suo più singolare teatro: Enrico IV, Sei personaggi in cerca d’autore, Così é se vi pare, Ciascuno a suo modo, La vita che ti diedi, Trovarsi, ecc.

 

In una mascherata storica, una Iieta compagnia di gaudenti fingeva Ia famosa andata di Enrico IV al castello di Canossa. Ma ecco che il barone Tito Belcredi, per gelosia d’amore, spinge ad arte il cavallo del finto Enrico IV, che cade malamente, battendo Ia testa e così diventa pazzo.

La forma della sua pazzia consiste nel credersi davvero il personaggio che rappresentava, nessuno riesce a toglierli dalla mente che egli non é Enrico IV. Per dodici anni rimase ammalato, e i suoi familiari secondando I’innocua illusione, gli costruiscono intorno un ambiente storico, fedele riproduzione della casa imperiale di Enrico IV a Goslar.
Se non che, quando iI malato guarisce, i parenti non se ne accorgono: il malato, ricuperando Ia coscienza e pensando alla vita che egli avrebbe vissuto, se fosse tornato in seno alla societa, Ia vede meno bella e meno intensa di quella che egli sino allora inconsapevolmente si era costruita; e preferisce continuare a fingersi pazzo e a crearsi Ia sua vita imperiale.
Così passano altri otto anni. II nipote del finto imperatore, per ubbidire alla propria madre, Ia quale — sul Ietto di morte -—— gliene aveva fatto espressa raccomandazione, Io fa visitare da un alienista. Ma ha Ia cattiva idea di condurre alla villa il barone Tito Belcredi e Ia marchesa Matilde Spina, della cui figlia Frida é fidanzato.
II falso pazzo, rimesso in contatto immediato con gli autori della propria disgrazia, sente risollevarsi Ie memorie di vent’anni addietro, il cruccio di tutto quel tempo trascorso invano, della vita che non ha potuto godere. Si scaglia contro il barone e Io uccide.
E che cosa potrà fare dopo, se non tornare, senza scampo, a crearsi Ia sua vita da pazzo?
E’ ben questa I’ossatura di una delle più forti opere di Pirandello.

Italo Siciliano ha scritto un Iibro, a suo tempo, per dimostrare che i personaggi pirandelliani sono arzigogolanti, febbricitanti di pessima filosofia, impossibili e arlecchini. Tutti possorno costatare, ep-
pure Pirandello resta sempre un non comune artista.

C’e un dramma nella sua anima e nella sua arte. Egli è lo straziato poeta del soggettivismo e della relatività, cioè di quel nostro sciagurato tempo che non s’acquietava più nel voluttuoso estetismo dannunziano (ma un po’ di D’Annunzio ce lo trasciniamo ancora in noi oggi).
Oggi soffriamo infatti d’aver perso la fede in una realtà oggettiva, vera, governata sia pur misteriosamente da un Dio che è sapiente, giusto e che soprattutto è Padre.
Da qui si può capire come tutte le creature pirandelliane assumano quell’aspetto di malati, di anime aspre e sitibonde di un’acqua introvabile da qui quella desolazione d’umorista che è in tutte le scene.

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