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Con il PETRARCA
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Francesco Petrarca (Arezzo 1304 - Arquà 1374). Figlio di Eletta Canigiari e del notaio fiorentino Petracco.
Dopo aver trascorso i primi anni nel podere paterno dell'Incisa e dopo un anno di studi a Pisa, nel 1311 seguì il padre ad Avignone, allora sede del pontefice, dove ser Petracco, perduta ogni speranza di un ritorno a Firenze, aveva trovato lavoro.
Suo primo maestro fu Convenevole da Prato: avviato, per imposizione del padre, agli studi giuridici, frequentò l'Università di Montpellier e poi quella di Bologna (1320-26). Tuttavia il suo appassionato interesse per le lettere prevalse sulla volontà paterna: fu attratto dalla lettura dei classici latini, specialmente Cicerone e Virgilio, e questo spiega perché non conseguì alcun titolo accademico.
La permanenza a Bologna, dove l'aveva accompagnato il carissimo fratello Gherardo, gli servì per conoscere a fondo la poesia in volgare, specialmente la lirica del “dolce stil nuovo”. Tornato in Provenza nel 1326, abbandonati gli studi giuridici, prese gli ordini minori che, senza imporgli obblighi ecclesiastici, gli permisero di ottenere incarichi e canonicati redditizi.
Frequentò la raffinata corte avignonese e ad Avignone, il 6 aprile 1327, un venerdì santo, nella chiesa di S. Chiara, vide per la prima volta Laura (forse la figlia di Audiberto di Noves, sposa di Ugo de Sade, o Laura di Sabran, o Laura Colonna), figura dominante e fulcro d'ispirazione della sua esperienza poetica.
In quello stesso tempo si approfondirono gli interessi del Petrarca umanista: non seppe mai bene il greco, che studiò soltanto molto più tardi, ma, come tutti gli uomini colti del tempo, Petrarca fu padrone del latino e vide nell'antichità classica un modello insuperato di vita al quale fare riferimento per ricostruire una vera cultura.
Cicerone, Virgilio e Seneca furono i suoi maestri ideali e molti furono i testi classici che Petrarca riportò amorosamente alla luce: nel 1333 scoprì a Liegi l'orazione ciceroniana Pro Archia. Era stato intanto assunto (1330) come cappellano di famiglia dal cardinale Giovanni Colonna, fratello di Giacomo, l'amico carissimo degli anni bolognesi. Furono quelli anni di grandi fermenti: la sua natura inquieta, curiosa di uomini e di cose, lo spinse a viaggiare in tutta Europa (Francia, Fiandre, Brabante, Renania). Ma l'ambizione, la felicità nello studio, i primi successi non vinsero l'inquietudine e la malinconia di Petrarca.
Nel 1333 il frate agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro gli fece dono di una copia delle Confessioni di Agostino, che fu da allora in poi uno dei testi fondamentali della vita del poeta, come egli narra nella famosa lettera indirizzata appunto a Dionigi (Familiares, IV, 1): in una dura ascensione sul monte Ventoso, quando il paesaggio si stese davanti ai suoi occhi, Petrarca aprì a caso le Confessioni e lesse: “vanno gli uomini ad ammirare gli alti monti, i gonfi flutti del mare, il lungo corso dei fiumi, l'immensità dell'oceano, la rivoluzione degli astri, e di se stessi non prendono cura”.
Era il richiamo cristiano all'interiorità, ciò di cui il poeta aveva bisogno: perciò si rifugiò a Valchiusa, in Provenza, portando con sé i suoi libri in quella serena dimora solitaria, che rimase il suo paesaggio dell'anima per il resto della vita, spinto da un'ansia mondana, assumendosi vari incarichi diplomatici e tuttavia sempre dominato dal desiderio di quiete e di raccoglimento per i suoi studi: un letterato nel senso moderno della parola e al tempo stesso un intellettuale “impegnato”, coinvolto anche con passione nella politica.
Dalla Provenza, che abbandonò spesso per i tanti viaggi che compiva, si staccò solo nel 1353, dopo un quindicennio in cui aveva maturato il meglio della sua poesia. Nel 1340 ricevette contemporaneamente due proposte di incoronazione poetica: una da parte dell'Università di Parigi, l'altra dal Senato di Roma. Dopo qualche incertezza scelse la seconda: nel 1341 si sottopose a Napoli all'esame diRoberto d'Angiò, il re umanista.
Forte di tale riconoscimento, in quell'anno stesso, il giorno di Pasqua (8 aprile) ricevette solennemente in Campidoglio la corona di poeta, che, in segno di umiltà, depose sulla tomba di San Pietro. Ma neanche questo servì a comporre la sua crisi; proprio in quegli anni 1342-43 scrisse ilSecretum, amara confessione in forma di dialogo con Sant'Agostino delle proprie debolezze di uomo e della difficoltà di raggiungere la cristiana virtù. Proprio in quegli anni cominciò a dare forma alle rime delCanzoniere. Intanto soggiornava brevemente a Pisa, a Selvapiana di Parma, ad Avignone, nei “luoghi descritti da Virgilio” (Pozzuoli, Baia, il lago di Lucrino e quello d'Averno, il Falerno), quindi di nuovo a Parma.
Nel 1347 era di nuovo in viaggio per Roma, dove Cola di Rienzo aveva conquistato il potere e accendeva gli animi nel nome della libertà. Petrarca aveva ormai largamente dimostrato le sue preferenze, sia con i sonetti antiavignonesi, sia con le epistole che, scritte fra il 1342 e il 1353, e poi nel 1359, intitolò Sine nomine; per questo, forse, aveva perduto l'amicizia dei Colonna. Ma in viaggio, a Genova, lo raggiunsero le notizie del fallimento di Cola – al quale aveva diretto un'ecloga latina e la famosa Hortatoria – e, cadute le speranze di un risorgimento popolare nel nome di Roma, decise di rientrare.
Andò a Verona, a Ferrara, a Padova, a Mantova, a Firenze dove incontrò Boccaccio, a Roma per il Giubileo e poi si fermò ad Arezzo.
Il 19 maggio del 1348 segnò sul codice del suo Virgilio la notizia della morte di Laura, avvenuta durante l'epidemia di peste che infuriava in Europa. Alcuni anni più tardi (1361) ancora la peste doveva privarlo del figlio Giovanni, avuto nel 1337 da una oscura donna di Avignone (da un'altra aveva avuto nel 1343 la figlia Francesca).
Nel 1351 rientrò in Provenza, che abbandonò definitivamente nel 1353 per stabilirsi in Italia, dove la sua attività di diplomatico divenne più intensa: dal 1353 al 1361 fu a Milano, presso i Visconti, dove rivide più volte Boccaccio; dal 1361 al 1362 a Padova, presso Francesco da Carrara, e poi a Venezia, in Riva degli Schiavoni, dove la Serenissima gli aveva assegnato un palazzo in cambio dell'impegno da parte del poeta di lasciare erede Venezia della sua ormai famosa biblioteca.
Ma nel 1368 era di nuovo a Padova; nel 1370 partì per Roma, per incontrarsi col pontefice Urbano V, ma a Ferrara venne colto da una sincope e dopo essere rimasto trenta ore senza conoscenza si fece trasportare a Padova e di lì ad Arquà, sui Colli Euganei, nella casa dove aveva riunito la famiglia: la figlia Francesca, il marito di lei e la nipotina Eletta.
Ad Arquà trascorse gli ultimi anni, mentre la sua salute andava peggiorando rapidamente. Scrisse delle lettere (l'ultima è indirizzata a Boccaccio) e la notte tra il 18 e il 19 luglio 1374 spirò, secondo la tradizione, col capo reclinato sull'amato codice dell'Eneidevirgiliana (altri dirà sulle Confessioni di Sant'Agostino).